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Marco Giusti per Dagospia
Cannes. Tutti in fila per Godard e il suo Le livre d’image. In sala grande, certo. Qualcuno scappa nell’oscurità. Ma i più piangono. Che sia la fine del cinema? Qualcuno si emoziona quando parte un celebre dialogo da Johnny Guitar. "Dimmi una bugia… dimmi che per tutti questi anni mi hai amato". Lo conosciamo a mente, certo. E una scena così va bene anche interrotta con un'immagine nera, non chiusa. Va bene anche se seguito, con un montaggio ironico da un'altra battuta, stavolta godardiana che si unisce bene.
Nessuno come Godard sa giocare con le immagini, i dialoghi, toglie, aggiunge, ferma, torna indietro. La scena dei partigiani uccisi nel Po di Paisà di Rossellini è unita a un video simile dell’Isis. Lo stesso orrore. Ma c’è di tutto, da Salò di Pasolini a un action movie di Michael Bay, da un cartoon di Tex Avery a far da segnalibro al capitolo sul “Montage interdit” (quale scelta poteva essere migliore?) e prosegue con Elephant di Gus Van Sant a Giovanna D’Arco al rogo di Rossellini, da un capitolo dedicato a “La region central” di Michael Snow a Godard che cita Godard che cita Godard.
A una dotta discussione sull’immagine e il mondo arabo e il cristianesimo (“Il Cristianesimo è la morte dell’immagine”). Curioso poi che proprio nell'anno delle battaglie di Cannes contro i critici da Twitter, che dovrebbero essere distrutti dalla visione in contemporanea dei film pubblico-critica, Godard, in questo magnifico studio-funerale dedicato all'immagine e al suo rapporto con la parola rispetto al cinema e alla nostra percezione, dopo quelli dedicati al Socialismo e al linguaggio, arrivi proprio a stupirci, a toccarci con un film che gioca proprio sul tempo, sulla persistenza dell"immagine nel nostro linguaggio e sulla sua riproposizione continua. Un blob, magari un twitter, che ribatte subito un’immagine e ne fa un remake continuo e infinito. Come se non ci fossero più immagini vergine da rileggere.
Al punto che il remake è proprio l’unico genere possibile del cinema di oggi, cinema del già visto, citazione infinita. Ma non sono così i miliardi di tweet e retweet dei film di Godard, le gif continue dei suoi film che ne smontano i magici meccanismi di fascinazione e diventano non più immagine e parole, ma solo riconoscimento? Godard ci presenta all’inizio uno schermo nero, poi una moviola, una pellicola in 35 mm.
E chiuderà con un balletto in bianco e nero (Ophuls?). In mezzo parlerà e parlerà della fine dell’immagine, moltiplicata in maniera infinita nel secolo precedente e in questo. Ne parlerà come se l’unico possibile film da fare sia una lezione di montaggio e smontaggio sull’immagine e sul suo rapporto con la parola, anche se ben poche parole corrispondono esattamente alle immagini che conosciamo. E le immagini hanno subito migliaia di trasformazioni dalla loro apparizione originaria. A cominciare dalle sue. Ma siamo tutti spettatori di un evento che segna la fine del cinema come l’abbiamo conosciuto. Altro che le inutili battaglie contro Netflix.
Ottimo anche il nuovo film di Jia Zhang-Ke, Jiang Hu Er Nv/Ash Is Purest White, presentato in concorso subito dopo Le livre d’image di Godard. Attraverso una complessa e combattuta storia d’amore in un mondo di duri e di malavitosi con un codice d’onore tra un piccolo boss di un città mineriaria, Shanxi, certo Bin, interpretato da Liao Fan, e la sua bella ragazza Quiao, intepretata da Zhao Tao, che si sviluppa dal 2001 in avanti e in città diverse, assistiamo al cambiamento radicale del paese, alla fine della tradizione e alla modernizzazione delle città. Bin e Quiao si amano.
Al punto che in uno scontro con una gang di giovinastri, Quiao salverà la vita a Bin sparando dei colpi in aria con la sua pistola. E per amore finirà così anche in prigione per cinque anni visto che in Cina è vietato l’uso delle armi da fuoco e non tradirà certo Bin. Ma quando esce Quiao non trova il suo uomo fuori dal carcere. E scopre, ahimé, che vive in un’altra città con un’altra donna. Le cose cambiano si dirà. Lo capirà in una lunga notte che i due passano assieme dicendosi la verità su cosa sono diventati. Lo recupererà però quando lui starà male, ma la pur forte Quiao ormai sa bene che nulla rimane come era prima.
Forte dell’interpretazione di Zhao Tao, già in corsa come migliore attrice protagonista, e di una magistrale fotografia di Eric Gautier, il film di Jia Zhang-Ke è più sottile di quel che a uno sguardo distratto può sembrare. E offre allo spettatore momenti inaspettati di grande cinema e di immagini di un paese che sembra abbandonare il proprio passato. La visione della città sul fiume Yangtze che sta per essere sommersa dall’acqua è in qualche modo esemplare del cambiamento che Jia Zhang-Ke testimonia col suo film.
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