DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Marco Giusti per Dagospia
Aspettando i premi maggiori del concorso di Cannes 2017, che sapremo solo stasera, dove noi italiani non abbiamo però nulla vincere, intanto ieri sera, a Un Certain Regard, Jasmine Trinca e la sua parrucchiera Fortunata, con la regia di Sergio Castellitto, che ha dedicato la vittoria al capitano Totti, hanno già vinto un bel premio in barba ai criticoni italiani che hanno massacrato il film. Inutilmente, anche perché Fortunata non era né eccessivo né poco rispettoso della tradizione italiana.
Anzi. E Jasmine Trinca era bravissima. Ma l’idea, che hanno avuto in testa i critici, soprattutto italiani, praticamente da subito, era di trovarsi di fronte a un festival moscio, modesto, quando magari quella era solo una loro visione. Se leggete la stampa straniera, soprattutto quella inglese, non sembra affatto così. E non lo era.
Intanto i nostri critici non hanno capito i due bellissimi film russi, Nebyubov/Loveless di Andry Zvyagintsve e A gentle Creature di Sergei Loztintsa, il regista di Austerlitz, che probabilmente saranno tra i vincitori, e che sono acclamati da tutta la critica internazionale. Hanno sottovalutato la potenza di Happy End di Michael Henecke, che crescerà nel tempo, perché è il film più lucido fra tutti quelli che abbiamo visto a Cannes sull’impotenza e il senso di sconfitta della borghesia europea di fronte alla realtà con una scena magistrale, quella di jean-Louis Trintignant che affonda nel canale della Manica mentre la nipotina lo filma col cellulare.
Così come hanno sottovalutato The Killing of a Sacred Deer di Yorgos Lanthinos, crudele metafora anche qui di cosa sta perdendo la borghesia europea nel suo muoversi nell’indifferenza. Nessuno o quasi, tra i nostri critici, me compreso, si è mosso poi per vedere lo spettacolare esperimento di Alejandro González Iñárritu, Carne y Arena, che prevede che uno spettatore alla volta si cali nei panni di un migrante messicano al confine con gli Stati Uniti e si sente esattamente come si prova un migrante fermato dalla polizia. Chi ha visto quei sei minuti e mezzo lo ha descritto come una delle emozioni più forti che si siano provate quest’anno.
Ma i critici erano più impegnati alla ricostruzione delle sicurezze del loro mondo. A cosa resta della Nouvelle Vague, ad esempio. Aiuto! Per questo erano furiosi, e lo ero anche io, va detto, per il ritratto comicarolo di Jean-Luc Godard in Le Redoutable di Michel Hazanavicious, si sono scaldati per quel po’ di Rohmer che è rimasto nel cinema romantico e morale del coreano Hong Sangsoo, The Day After, per la favola metaforica di Naomi Kawase sul fotografo che sta diventando cieco. Alcuni critici si sono rifugiati a Un Certain Regard dove erano stati sfollati i vecchi Claire Denis col suo film barthesiano sull’amore con Juliette Binoche, Un beau soleil intérieur, e Philippe Garrel con l’amante del professore attempato che lo tradisce scopandosi in piedi, nel bagno, gli studenti carini che trova, L’amant d’un jour, e perfino Bruno Dumont con il suo musical sull’infanzia di Giovanna D’Arco, Jeannette. Buoni film, certo, magari un po’ già visti.
I selezionatori di Cannes, in realtà, hanno cercato quest’anno di svecchiare parecchio il concorso maggiore, di puntare su film magari storici, come 120 battements par minute di Ruben Campillo, ambientato negli anni ’90 dell’Aids e del governo Mitterand, che avrà sicuramente un premio, ma che avessero o una qualche forza politica e la forza di un nuovo linguaggio, come fu un anno fa il Toni Erdmann di Maren Ade e si sperava quest’anno avessero The Square di Ruben Ostlund, che agli inglesi è molto piaciuto, o Yorgos Lanthinos o i due russi.
E’ quello il cuore di quest’edizione del festival che non è piaciuta o non è stata capita dai nostri critici col ciglio alzato. Inoltre è stata una Cannes molto politica, con rifugiati e disperati di ogni tipo, due durissimi film sulla Russia di Putin, una serie di sguardi senza pietà sulla crisi della borghesia europea, perfino una sorta di Passione di Cristo con un siriano in Ungheria capace di volare dopo che la polizia gli ha ficcato tre pallottole in corpo.
Se, oltre al concorso, allarghiamo a quello che si è visto alla Quinzaine e a Un Certain Regard, con film forti come The Florida Project di Sean Baker o A Ciambra di Jonas Carpignano, che ha vinto come miglior film europeo, ci rendiamo conto che il quadro che i cineasti internazionali, soprattutto quelli più giovani, vanno descrivendo, è un ritratto di un mondo terribile dove ci si salva solo con ciò che ci resta di solidarietà e umanità. Questo lo puoi raccontare con uno stile neorealista più o meno classico o con un tuo stile più o meno personale, ma rimane il fatto che per costruire uno di questi film ti devi sporcare, devi lavorare sul campo, confrontarti con la realtà.
Questo lo hanno fatto perfettamente i tre bei film italiani della Quinzaine, Cuori puri di Roberto De Paolis, A Ciambra di Carpignano e L’intrusa di Leonardo di Costanzo, e lo hanno fatto anche tanti degli altri film che abbiamo visto, a cominciare da The Rider di Chloe Zhao che ha vinto la Quinzaine e perfino dal bellissimo giallo di Taylor Sheridan, Wind River, ambientato in una riserva indiana a Un Certain Regard. Questa piccola rivoluzione, ma che per Cannes è una grande rivoluzione, non è stata affatto visto da una critica più attenta a seguire una linea, fofiana o godardiana che fosse, legata solo alla scrittura dei film.
Per questo non si sono accorti di quanto fosse forte il film di Campillo sulla generazione dell’Aids e di Act Up francese o di quanto lo fossero i film russi o quelli italiani alla Quinzaine. Preoccupati dello stroncare Hazanavicious, certo, faceva ridere, o di demolire Hanecke non hanno visto che non è stata affatto una edizione modesta, ma un’edizione che cercava altre strade e altre storie per costruire qualcosa che rompesse con la tradizione cinefila per ragionare sulla realtà.
E i premi, presumo, per quanto possa essere originale Pedro Almodovar, il Presidente della Giuria, difficilmente non potranno non seguire questa linea. Per i cinefili rimaneva sempre la grande giornata David Lynch con la sua nuova versione, meravigliosa e complessa, totalmente sperimentale e totalmente cinematografica, di Twin Peaks, o il Top Lake di Jane Campion.
Come se la cinefilia e il cinema d’arte si fossero nascosti nelle serie tv. Stravaganza di un’edizione che ha visto una Cannes mai così assurda, con la polizia e l’esercito che proteggevano sia i critici più o meno puzzoni in fila per vedere i film, sia le superstar del tappeto rosso. E quest’anno c’erano davvero tutte, con Nicole Kidman in primissifa fila con quattro film.
Per un glamour che la notizia di Manchester ha distrutto, ma non ha certo impedito che andasse avanti nella sua inutile ritualità. Del resto, due giorni prima, di fronte alla possibilità di una bomba alla sala Debussy, con tutti i critici spiegati per vedere proprio Le redoutable, nessuno voleva andarsene alla richiesta di Get Out! degli uomini della sicurezza. Come il Trintignant che rimane impassibile di fronte alla morte della borghesia europea, la critica, il giornalismo di mezzo mondo non sembra rendersi conto della realtà.
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Una realtà, però, che gli stessi registi ci mostrano, sforzandosi di farlo con linguaggi diversi e originali. Perfino Fortunata va in quella direzione. Allora, ripeto, al di là, dei premi di questa sera, non è stata affatto una brutta edizione, è stata un’edizione di rinnovamento, e per il nostro cinema, anche se non aveva un solo titolo nel concorso, e uno dei tre film della Quinzaine ci poteva benissimo stare, è stata un’edizione importante. Perché abbiamo fatto un’ottima figura.
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