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Marco Giusti per “Dagospia”
La verità è che di questo incontro storico fra Elvis Presley e Richard Nixon, realmente avvenuto nel dicembre del 1970, l’unica cosa che ci resta è una celebre fotografia di un Elvis vestito proprio da Elvis e sorridente e un Nixon torvo e antipatico come sempre. Nulla venne filmato o registrato.
Ben venga, quindi, questo divertente, assolutamente intelligente piccolo film, “Elvis & Nixon”, diretto da Liza Johnson e scritto da Cary Elwes, Joey Sagal e Hanala Sagal, che cerca di ricostruire più con toni da operetta sociopolitica, come dice Richard Brody del “New Yorker”, che da commedia, alla Frost/Nixon, ben più strutturato, quello che realmente si dissero i due personaggi. Anche se, in verità, il maggior divertimento non ci arriva dall’accuratezza della sceneggiatura, che parte dai ricordi personali di due personaggi allora presenti all’avvenimento, Jerry Schilling, amico di Elvis, e Bud Krough, membro dello staff di Nixon, ma dalle prove attoriali assolutamente non convenzionali di due attori favolosi e realmente interessati all’operazione come Michael Shannon, qui anche produttore esecutivo, come Elvis e Kevin Spacey come Nixon.
Ci vuole un po’ di tempo per digerire il faccione da cattivo e paranoico di Michael Shannon come Elvis, anche perché non ha mai toni da commedia, e ci vuole altrettanto tempo, forse anche di più, per farci passare l’effetto Frank Underwood che ci trasmette immediatamente Kevin Spacey. Ma sono così bravi, così in parte, e così divertiti nel mettersi in gioco che alla fine non puoi non cascarci. E come in un qualsiasi “Batman vs Superman”, non aspetti che il momento in cui i due si incontreranno davvero. Anche perché non è chiaro cosa voglia chiedere Elvis al presidente Nixon. E forse non lo ha chiaro in testa nemmeno Elvis.
Partiamo, come nel grande film di John Carpenter, da un Elvis che guarda la tv a Graceland, e tira fuori una delle sue pistole per sparare al televisore. Bang! Elvis vuole fare qualcosa per salvare il proprio paese dai comunisti fan dei Beatles e dai giovani che protestano. Come Alberto Sordi in “Un americano a Roma” vuole anche lui una stella da sceriffo del Kansas City. Vuole diventare agente segreto aggiunto. Vuole infiltrarsi tra i fan dei Beatles o dei Rolling Stones per debellare la piaga del comunismo. Va detto che la sua follia politica è trasmessa benissimo da Michael Shannon. Ma è anche la follia da prima star del Rock che pensa di poter risolvere tutto di persona solo andando a parlare dal presidente.
Si rivolge al suo amico Jerry Schilling, interpretato da Alex Pettyfer, che lavora a Los Angeles alla “Paramount”, perché si fida solo di lui. E’ una missione segreta. Lo deve scortare fino alla Casa Bianca, a Washington, e fargli incontrare Nixon. Metà del film è proprio giocato su questo. E è notevole quando Elvis scende dalla macchina e si rivolge ai poliziotti della Casa Bianca come fosse un personaggio di Verdone per mandare una letterina al presidente. Quello che vediamo dalla Casa Bianca è un Nixon che non sa assolutamente nulla di marketing politico e non si rende per nulla conto dell’importanza dell’incontro con Elvis. Non è Frank Underwood. Kevin Spacey ce lo presenta bovino, scaltro, ma estremamente ignorante, soggiogato dalla memoria dei Kennedy e dal non piacere praticamente a nessuno.
michael shannon e kevin spacey
Spacey deve prima togliere di mezzo “House of Cards” e poi lanciarsi nel suo Nixon. Lo fa con grande intuito e in gran fretta. Dalle note di produzione leggiamo che ha girato le sue scene in cinque giorni. In un primo tempo non vuole proprio perdere tempo con Elvis. Non vuole vederlo. Ma ha due figlie, e una delle ragazze è pazza di Elvis, l’altra dei Beach Boys, e vuole assolutamente che il padre le procuri un autografo del cantante. Su questo giocheranno gli uomini del suo staff, interpretati da Colin Hanks e Evan Peters, che vedono l’incontro con Elvis come una chance meravigliosa per un ritorno di popolarità del presidente. E faranno di tutto per portare Elvis da Nixon. La regista, Liza Johnson, che aveva diretto Shannon già nel suo primo film, “Return”, e i suoi sceneggiatori, prima di mostrarci questo incontro, devono riempire con altro materiale il film, per questo il personaggio di Jerry Schilling la fa quasi da protagonista, perché l’Elvis che vediamo è quello mediato dai suoi ricordi.
Non è il ritratto di un pazzo, ma di una rockstar, anche molto umano, che non riesce a percepire la realtà come una persona normale. E alterna comportamenti da ragazzino al delirio da star. La bella sequenza nel bar di Washington, dove Elvis parla di se stesso al plurale, dove però il noi è riferito a lui e a Louise, la pistola che tiene nello stivale, è un chiaro esempio di divagazione, ma anche di gran divertimento per i fan del cantante. Il film, purtroppo, non può contare sulle canzoni di Elvis, gli eredi non hanno per nulla avallato questo ritratto fuori di testa, fascistoide del cantante, ma questo spinge gli autori a concentrarsi sui rapporti tra i personaggi e sulla costruzione di un Elvis non tradizionale.
Se Shannon ci appare eccessivo, la vera foto finale dell’incontro ci mostra un Elvis assolutamente identico a quello del film. Più bello, certo, ma identico. Anche se il film è più interessato alla costruzione di un personaggio alle prese con la propria dimensione di star e con la distanza che lo separa dalla realtà. La sua follia parte da questa incapacità a muoversi nel mondo reale. Anche nel caso di Nixon, ci pare che sia Spacey che gli autori siano interessati a mettere in scena non un Nixon reale, quanto un personaggio alle prese con il proprio potere che cerca di capire come gestirlo e cosa farne. In questo c’è spazio anche per la prospettiva di un Frank Underwood dentro alla furbizia di Nixon. In sala da giovedì.
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