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Testo di Gabriele Micalizzi pubblicato dal Corriere della Sera
Quando arriva il colpo, non senti dolore. Non senti niente. Ti trovi per terra, il sangue ti copre la vista. Un braccio è a pezzi, va per conto suo. Non ti muovi. Intorno, il silenzio. Dici: va beh, è così che devo morire.
Allora cerchi le sigarette: fammi fumare, va'. Ma dove le avevo messe, le sigarette? Intanto sei ancora vivo. E aspetti. Ti tocchi l' occhio, fa impressione: sembra un uovo à la coque. Passano i minuti. Poi cominci a sentire la soldatessa curda che grida. «Gabriele!».
Braccia che ti prendono e ti trasportano su un Humvee.
Okay, mi stanno soccorrendo.
Lo racconto ora, in un corridoio del San Raffaele, ringraziando chi ha fatto di tutto per me. I militari curdi, i medici americani, l' ambasciata italiana. La mia macchina Leica, anche. Non l' avessi avuta davanti alla faccia, non sarei qui a parlarne: nell' impatto m' ha danneggiato gli occhi, ma ha fatto da scudo. Io avevo l' elmetto, il giubbotto, quel che si deve.
Siamo professionisti, non c' improvvisiamo. Sappiamo calcolare i rischi, di solito.
Quella mattina, forse mi sono fidato un po' troppo. Con Gabriel, il mio collega della Cnn , siamo arrivati a quella palazzina, la più avanzata di tutte. «Di sopra c' è il comandante curdo, andiamo a fotografarlo?». Ho detto va bene.
Ma quando sono sbucato sulla terrazza piena di sole e ho visto le bandiere nere dell' Isis, trecento metri da noi, non ho avuto il tempo di pensare che rimanere lì fosse imprudente. Avrei dovuto dire: ragazzi, andiamo al piano di sotto. Ricordo l' ultimo gesto del comandante, una mano che s' aggiustava la sciarpa. Io sono sicuro che mirassero a me, m' avevano visto salire: il razzo è partito e mi stava arrivando addosso. Poi ha preso una traiettoria strana, forse il vento, non so, ma quella deviazione m' ha salvato. Mors tua vita mea: è piombato sulla terrazza e ha centrato in pieno un soldato che m' è esploso davanti, quindi ha colpito il comandante. Io sono stato buttato indietro.
Ci sono volute due ore in furgone, su un materasso, per arrivare al primo punto di soccorso. E non è come viaggiare in ambulanza, ogni buca mi picchiava sulla testa.
Intorno, sentivo l' agitazione.
Sembra strano, ma la prima paura è stata quando gli americani m' han detto: hey guy , possiamo fare due cose, o portarti in un ospedale siriano o nel nostro a Bagdad.
Ho avuto la forza di rispondere: non starete scherzando? A Bagdad! A Bagdad! E loro: okay, ma c' è una procedura, vediamo In quelle ore d' attesa, il consolato italiano a Erbil s' è sbattuto. So che gli americani hanno chiamato anche un mio amico fotoreporter, per sapere chi fossi davvero: del resto, ora è pieno di foreign fighter in fuga Mi sono sentito al sicuro, una volta ricoverato al Roll3 di Bagdad. Lì curano feriti d' ogni tipo e me ne sono accorto: mai vista un' assistenza così.
A un certo punto, intontito dopo un intervento, ho udito vicino a me una donna che parlava italiano. Un' infermiera della task-force della Marina. Gentilissima. Un accento meridionale che mi ricordava casa: «Ueh - l' ho presa in giro -, mi sembra di sentire mia nonna!...». In tre giorni, mi hanno rimesso in piedi. Il medico americano mi ha detto: ne ho visti di feriti, sei arrivato e ti credevamo perso, ma sei un bel torello Ho perso una falange, il braccio è da operare, la vista va così e così, fatico a leggere, da un orecchio non ci sento. Ancora due settimane d' ospedale, come minimo.
Mi hanno letto qualche commento sui social, gente che si chiede perché facciamo queste cose. Io dico che ci vuole sempre qualcuno che vada e racconti, specie là dove non va nessuno. Dove ci sono migliaia di poveracci dimenticati da tutti, in mano all' Isis. Quanti sapevano che cosa sta succedendo veramente a Baghuz? La fine dello Stato islamico non è solo la caduta di Raqqa. È questa guerra sporca ignorata dal mondo. La storia è un mosaico che si costruisce con piccole tessere, come le foto che facciamo noi. Se poi devo dire di me, questa botta mi ha insegnato a rimettere le cose in prospettiva. Due bambine, una compagna. E il lavoro. Da quando era morto in Ucraina il mio amico Andy, sotto un colpo di mortaio, io pensavo che ogni mio giorno non fosse altro che un giorno in più regalato. Mi sentivo sopravvissuto a lui. E spingevo, spingevo tantissimo. Rischiavo molto.
A Bagdad, mi sono risvegliato con un hamburger da mangiare. Era buonissimo.
Quel momento, è stato di felicità.
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