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Mario Ajello per il Messaggero
Amori, amorazzi. Nobili, nobilastri. Omicidi, due: ma sarebbero potuti essere di più. Roma, in ogni pagina: tra grande bellezza e grande bruttezza. Spasso: assicurato, al massimo grado. Ecco il nuovo romanzo di Enrico Vanzina, La sera a Roma. Esce oggi per Mondadori. Ed è un cocktailino torbido e gustoso, l'opposto del polpettone.
Vanzina, perché s'è cimentato nel giallo?
«Ho scritto 100 film, 2000 articoli, 7 o 8 libri, più una commedia teatrale. Non ho fatto altro che scrivere nella mia vita. Ma non riuscivo a fare un romanzo. Mi sono sbloccato 4 anni fa e ho fatto tre noir del genere americano, tra Hammett e Chandler».
Ora siamo al quarto?
«Mi frullava da tempo nella testa. Cominciavo, mi fermavo, riprendevo. Così per otto anni. Poi mi sono detto: dev'essere un giallo, un libro su Roma, sul cinema, sul giornalismo. E soprattutto, un libro sul tempo».
In queste pagine, il tempo è tutto un decadere. Perché?
«Perché il protagonista, Federico, è diventato un po' me. Ed è un decadere perché questo protagonista ricorda. Ha la maledizione di ricordare. E così il libro è popolato da fantasmi del passato».
Da Risi a Monicelli, da Flaiano a Lizzani, da Sordi a tanti altri. E poi?
«Per rendere il tutto molto contemporaneo, ho infilato personaggi veri con nomi e cognomi e semplici amici, come Aurelio De Laurentiis, Roberto Gervaso, il mio avvocato Carlo Longari, Gianni Bulgari e via così. Ci sono pure quelli scomparsi da poco come Mario d'Urso».
Risultato?
«Ho cercato di fare un po' La Dolce Vita in giallo».
Cioé?
«In quel magnifico film, c'è un giornalista in balia degli eventi, che non trova più il senso della propria esistenza. Nel mio romanzo c'è un giornalista-scrittore, Federico, che è travolto da un delitto e, vedendo crollare tutto intorno a sé, fa un bilancio della sua vita. E come nella Dolce Vita, anche il mio personaggio attraversa molti ambienti. In particolare è attratto, e poi deluso, dallo sfavillante mondo dell'aristocrazia romana. Alla fine si rende conto che s'è infilato in quell'imbuto nobile, per sfuggire ad altri ambienti inutili e si rende conto che il mondo aristocratico è inutile come gli altri».
Non è che lei si è ispirato alla Donna della domenica?
«Quel romanzo dei grandi Fruttero & Lucentini è stato un po' il mio faro. È sempre appassionante ambientare una storia misteriosa nei quartieri alti. Loro l'hanno fatto nell'alta borghesia di Torino, io ho provato a farlo nei palazzi romani».
Compreso quello del Messaggero.
«Sì, mi piace moltissimo questo giornale. Mi ha fatto crescere come scrittore. E sono orgoglioso di lavorare per il quotidiano che rappresenta Roma. Questo però non mi impedisce di criticare questa città».
«Roma - così lei scrive - è brutta perché si sono corrosi i romani». Ma davvero?
«Gliel'ho detto: è un libro sul tempo. Il tempo è stata la fortuna di Roma, nel bene e nel male. Ha conservato e tramandato la sua gloria, e ogni tanto si diverte a creare crepe orribili. Questo periodo è molto crepato».
Roma si sente tanto sicura di sé che può giocare con se stessa?
«Sì, e anche lei però, come tutti i giocatori, non mette in conto che si può perdere. Glielo dico come autore di Febbre da cavallo».
Di sicuro non vorrà svelare chi è l'assassino o l'assassina in questo libro.
«Dico solo che la cosa a cui ho lavorato di più è stata la costruzione dell'intrigo giallo. Mi ha molto aiutato il cinema. E i dialoghi sono - credo - veri. Non come in molti romanzi, nei quali la lingua letteraria prevale e raffredda tutto».
C'è molto sesso, come mai?
«Perché sta nella vita. Ed è un piacere e una maledizione. I personaggi di La sera a Roma, chi più chi meno, devono fare i conti con le proprie debolezze. A cominciare dal protagonista. Quindi da me».
steno con i figli carlo ed enrico vanzina
Federico ha una moglie. Anche lei?
«Da 42 anni. Pamela, la moglie di Federico, è anche lei un po' mia moglie. La cosa della quale vado più fiero, in questo romanzo, è che sono riuscito a fare questo personaggio femminile straordinario, il più perbene, equilibrato, onesto di tutti. È lei che alla fine trionfa».
E Roffredo Cafiero d'Aragona? Incarna lo snobismo, altro tema forte del libro?
«È un anziano marchese napoletano, gay, spiritoso, elegante. Intuisce la fine del suo mondo, ma con grande intelligenza ne perpetua i modi e le abitudini. È un uomo sconfitto. Ma che vorrei avere accanto per tutta la vita. Lo snobismo è una malattia, è come una brutta influenza. Per farla passare, servono gli antibiotici. All'inizio del libro, cito il duca di Bedford: lo snobismo si può definire all'ingrosso il piacere di guardare gli altri dall'alto in basso. E il mondo è costruito talmente bene che tutti troviamo sempre qualcuno da guardare dall'alto in basso».
Nel racconto, viene trattato il cinema in maniera quasi minimizzante. Ma proprio lei fa questo?
«Oggi, che ho una certa età, per strada mi chiamano maestro. Detesto questo appellativo. Per me, il maestro è uno che insegna a scuola, spiega cose importanti. Il cinema invece narra cose di finzione».
A proposito, davvero «a Roma si finisce per confondere finzione e realtà»?
«Proprio come nel mio romanzo. Dove Roma è una grande commedia, rispetto alla quale si può anche continuare a sorridere del disastro e a divertirsi con una storia di omicidi e nefandezze. Volevo essere potente e allo stesso tempo leggero in questo romanzo. Ci sono riuscito?».
maria maples guillermo mariotto enrico vanzina
enrico e carlo vanzina con roberto d agostinoverdone, cecchi gori, carlo e enrico vanzina foto andrea arrigaenrico vanzinaloredana quinzi francesca ferrone lisa vanzina dago virginie anna federici
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