vincino

VINCINO FOREVER – FERRARA IN ODE AL VIGNETTISTA SCOMPARSO: “ERA UN GIGANTE LEGGERO COME UNA PIUMA. I SUOI DISEGNI ERANO NUVOLE DI INTELLIGENZA COLORATA. MAI GELOSO, MAI ENFATICO, MAI GROSSOLANO, SEMPRE INTIMAMENTE LIBERO” – L’INTERVISTA A MALCOLM PAGANI NEL 2016: “CERCO IL CONFLITTO. LA SORPRESA. L’EMOZIONE CHE NON TI ASPETTI. NON HO RIMPIANTI, AL MASSIMO, CON SFORZO, QUALCHE TEMPERATA NOSTALGIA”

1 – VINCINO, QUELLA PASSATA DI LUCE

Giuliano Ferrara per “il Foglio”

 

vincino 15 anni dagospia

Vincino era un gigante leggero come una piuma, e questo lo sanno tutti. I suoi disegni avevano la straordinaria bellezza del vago, erano nuvole di intelligenza colorata.

 

Ma negli ultimi giorni della sua vita, fino a ieri, erano chiaroscuri appesantiti dal male di morire così estraneo a un tipo umano, per quanto un palermitano, così inquieto e pacificato, noncurante e impegnato allo spasimo nel trovare mille soluzioni al fantastico.

 

VINCINO

Tutti i giorni, e negli ultimi ventitré anni soprattutto per noi, Vincino si intrometteva nell’esistenza pubblica di un giornale, del mondo e del suo mondo, del suo paese, dei suoi campioni belli, brutti, osceni, variopinti, che nel suo racconto erano a uno a uno riscattati dalla rara combinazione di sentimento, humour e intelligenza che era la sua bandiera nascosta.

VIGNETTA VINCINO DAL FOGLIO FERRARA E LA GIORNATA DI LAVORO AL FOGLIO

 

Dico nascosta perché Vincino, come tutti i grandi della satira, aveva un fondo di tristezza e di preoccupazione per le cose, oltre che per sé e per Giovanna sua moglie e le sue meravigliose figlie, un fondo di angoscia e di paura che ha proiettato in un abbozzo autobiografico a malattia già avanzata. Era un re del deadpan, non rideva alle sue battute, sorrideva piuttosto, e fumava, beveva, consumava l’esistenza con avidità e dismisura.

 

GIULIANO FERRARA

Alto, dinoccolato, barcollante, con un volto da dio greco minore ma sapiente e veloce, mai geloso, mai enfatico, mai grossolano, sempre intimamente libero e sempre disposto solo a quei compromessi vitali che sono capaci di ingrandire una vita e una funzione civile.

 

Era un colossale dissimulatore di rabbia, furore, esperienza militante, barricadera, e sapeva fingersi conformista, penetrare in tutti gli ambienti, stabilire una relazione aristocratica, di connivenza sottile, camaleontica, con i suoi molti lettori di molte testate diverse, con i suoi molti ritrovati di stile, lo stile, la sua condanna.

vincino dagospia

 

Non riusciva a essere peggiore, non ce la faceva proprio, della materia che rappresentava, e che ha narrato in tanti anni di operosità fervorosa e ingenua, di lavoro sempre incollato al principio sacro dei grandi, il dilettantismo, dunque la freschezza del tratto, l’aria di non tirarsela mai, l’adesione non già al tempo e men che meno allo Zeitgeist ma alle ventiquattr’ore, massimo alla settimana in corso.

 

Politica, cultura, ideologia, antropologia, ritrattistica e favolistica, niente di umano gli era estraneo a patto che fosse ricomponibile nello scherzo puro, in quella passata di luce che i suoi disegni e disegnini e affreschi offrivano all’emozione e alla distratta passione del consumatore di satira, del suo occhio critico, del suo riflesso mentale immediato.

 

vauro in omaggio a vincino

Che Vincino lavorasse per gli altri, che si sbattesse un po’ dovunque con matite e taccuini e aggeggi elettronici, che fosse uno che si dedica, questo è quasi miracoloso, tanto era in fondo timido e impegolato con sé stesso, con la sua ribalderia e il suo coraggio e la sua ilarità costumata e mirabolante, la sua irriverente spiritualità.

 

Averlo avuto qui dall’inizio, senza soste, a disposizione del beffardo e del serioso, a complemento essenziale e avanguardia di quello che abbiamo immaginato e raccontato e scritto, è stata una gioia scintillante che fa da riserva di amore e quasi impedisce ora di piangerlo.

 

 

2 – VINCINO, I SETTANT’ANNI DI UN CANE SCIOLTO ANARCHICO E INFEDELE

Malcom Pagani per “il Fatto quotidiano” del 29 maggio 2016

 

la prima del foglio oggi

Il primo caldo di Roma. Le auto che lambiscono i tavoli di un bar. Vincino domani compie settant’anni e i gas di scarico lo preoccupano più della questione anagrafica: “Qui ci intossichiamo”.

 

Con l’aria da randagio è arrivato – dice – fino a un’età “in cui mi trovo bene. Non sono più un ragazzo, ma se mi guardo indietro scopro di aver fatto tutte le cose che sognavo di fare e che invecchiare in fondo non mi dispiace”. Gli resta un desiderio: “Sarei felice di insegnare nelle scuole: un’ora di satira alla settimana, 60 minuti di civiltà in cui gente come Altan, Vauro, Mannelli, Giannelli e tutti gli altri possano raccontare il mondo a modo loro”.

 

Con il Colosseo di fronte, Vincino, sosia naturale di Enrico Ghezzi, ricorda i tempi in cui la realtà non pareva un Blob in costante aggiornamento e per ferire con il disegno era necessario trasformarsi in gladiatori: “C’è stata un’epoca in cui discutere e litigare per trovare l’idea giusta era essenziale. Oggi sono tutti coperti e allineati.

 

vincino vauro

Tutti spaventati di scontentare il capo, perdere il lavoro e ritrovarsi ai margini. Io sono dell’idea che il giornale perfetto è quello che fai con i nemici, con quelli che non sono d’accordo con te.

 

Più pareri diversi ci sono, migliore sarà il prodotto. Ho sempre considerato sanissimo lo scazzo e il dubbio, un sintomo di intelligenza”.

 

Le sembra che non si dubiti più?

Nel 2016, se dubiti, ti inquadrano nella schiera dei rompicoglioni. È una cosa insopportabile, come è insostenibile il dibattito politico di oggi. Come in certe deludenti vignette, nel vuoto, ci sono due figurine che consumano slogan e copione senza ascoltarsi.

 

vincino vignetta

Come ci siamo arrivati?

A forza di accettare e poi incensare la cultura del capo. Prenda Renzi: sta facendo errori terribili. Una brutta legge di riforma del Senato, una bruttissima legge elettorale. In questa situazione, una situazione che probabilmente mi spingerà a votare no al referendum, sa che l’unico sensato del mazzo mi sembra Bersani?

 

Fino a tre anni fa le faceva orrore.

È vero. Non lo tolleravo. Ma tre anni fa non pensavo che Renzi sarebbe diventato leninista.

 

Renzi sarebbe leninista adesso?

vincino

Quasi. Gli piace la corte. Gli piacciono gli applausi servili e imbecilli. Dovrebbe ascoltare anche chi dissente, mettersi accanto un Bersani, andare subito a elezioni, farsi votare e una volta presi i voti – se ci riesce – procedere con una squadra più dignitosa dell’attuale.

 

Quella attuale manca di dignità?

Ma non ha visto la paura dei deputati del Pd, terrorizzati dal non essere ricandidati? Sono pupazzi inanimati. Il Parlamento è privo di qualsiasi autonomia e i Peones di oggi non somigliano neanche lontanamente a quelli di ieri.

 

staino ricorda vincino

Non rimpiangerà il decennio tra il ’70 e l’80?

Lo rimpiango, certo. C’era meno trasformismo. C’erano i grandi referendum libertari. I peones studiavano, si impegnavano, avevano le borse piene di documenti e votavano in difformità dal partito senza nessuna conseguenza. Non si cambiava casacca con la rapidità di oggi.

 

Non ha cambiato vorticosamente giornali anche lei?

Da anarchico e da cane sciolto, non sono stato fedele a nessuno. Ho avuto grandi direttori e direttori decisamente meno illuminati. Quando ho sentito di non essere gradito, come negli ultimi tempi al Corriere quando sei proprietari lottavano tra loro, non ho dovuto neanche prendermi la briga di sbattere la porta. Alla porta mi hanno accompagnato direttamente gli altri.

l'ultima vignetta di vincino per il foglio

 

Nomi di direttori illuminati?

Pino Zac ed Enrico Deaglio, proprio come il primo Paolo Mieli, furono buoni direttori.

 

Il migliore?

Grande fu il Verdelli di Vanity Fair e grandissimo si dimostrò Ferrara. Giuliano aveva capito che più mi lasciava libero e più servivo al suo racconto della realtà. Il direttore migliore è quello che comanda la nave e ti difende anche quando non è d’accordo con te.

 

In mezzo alle navi lei è cresciuto.

Mio padre era il direttore dei Cantieri Navali di Palermo. Era nato nel savonese, a Cairo Montenotte, il paese di Gigliola Guerinoni, detta la mantide. Si era laureato presto e all’epoca, per i primi laureati, l’assunzione da parte delle grandi aziende italiane era quasi un automatismo. Lo cooptò la Piaggio e poco dopo finì a Palermo.

ellekappa per vincino

 

Era uomo di grande moralità e sobrietà. Rispettava il ruolo che ricopriva e non ammetteva deroghe alla missione. Non entrava nei bar per paura che gli offrissero un caffè, temeva i conflitti di interesse, a casa non parlava mai di lavoro e si sbatteva per 12 ore al giorno.

 

Considerava il denaro di cui non poteva razionalmente spiegare la provenienza come un peccato mortale. Quando vinsi per la prima volta a poker a 17 anni – un bel gruzzolo – ero disperato. Non sapevo dove nascondere i soldi.

 

Suo padre mediava tra sindacati e Confindustria.

VINCINO MI CHIAMAVANO TOGLIATTI

Da piccolo ho avuto un posto privilegiato per capire come e perché si muovevano le cose. Le trattative che conduceva mio padre duravano 40 giorni in un contesto iper-politicizzato in cui gli scioperi si protraevano per settimane. Papà si preoccupava della salvaguardia dell’occupazione e non era per la rottura a prescindere.

 

Citava sempre Di Vittorio, il grande capo del sindacato che agli operai diceva: “La vacca va munta, non uccisa”. Ogni tanto, alla durezza della discussione e all’importanza della posta in gioco si affiancava il teatro. Lui e Di Vittorio, impegnati in una contrattazione serratissima, trovarono un punto di contatto in macchina, girando a lungo la Circonvallazione di Palermo. Per non dare l’impressione di essersi messi d’accordo troppo rapidamente tornarono in assemblea dopo 12 ore e finsero di litigare per i tre giorni successivi.

 

altan in omaggio a vincino

Sua madre?

Non voleva essere soltanto la moglie del direttore dei Cantieri navali, né semplicemente la madre dei suoi due ragazzi. Io, il discolo di casa e mio fratello maggiore, quello intelligente che si laureò in ingegneria.

 

Mamma si mise in testa di dare un’opportunità ai bambini che abitavano nelle zone centrali, tra le più degradate di Palermo. Con le sue amiche fondò una scuola. Si calava nelle tane del sottoproletariato palermitano, tra Ballarò e il Borgo, e ne usciva con bambini di 5 o 6 anni ai quali offrire un’altra prospettiva.

 

A un certo punto, per offrirsene una anche lei, lasciò Palermo.

Amo follemente Palermo. È la mia città, non l’avrei mai lasciata, ma quando iniziai a disegnare i fax non esistevano. Proporre i miei lavori ai quotidiani romani significava vederli in pagina tre giorni dopo. Dovetti trasferirmi a Roma. Una città nella quale non mi sono mai identificato.

vincino con valentina e michele ainis

 

Primi disegni?

Da bambino. Come tutti avevo l’istinto di acchiappare fogli, disegnare e colorare qualsiasi cosa. Il 99 per cento delle persone poi smette perché famiglia, scuola e contingenze cancellano la fiamma originaria.

 

Continuano in pochissimi. Io ho continuato. I primi disegni li pubblicai su L’Ora. Poi, convocato da Lotta Continua, raggiunsi Roma nel 1973. Pochi mesi dopo la morte di Roberto Zamarin, che per LC aveva disegnato il logo e inventato il personaggio di Gasparazzo.

vincino vignetta 1

 

Lei militava già in Lotta Continua?

Avevo cominciato a Palermo. Ero molto impegnato nelle iniziative. Sognavamo di aprire teatri che non avrebbero mai visto la luce e facevamo lunghi cortei dal quartiere Zen per occupare l’Istituto case popolari, a chilometri di distanza.

 

Partecipava alle lotte?

Avrei potuto fare il rivoluzionario di passaggio a vita, ma il disegno mi collocò altrove. Avevo studiato per altri scopi. Raggiungere la laurea in Architettura, in una facoltà severa con materie che mi sembravano a dir poco ostiche, era stata dura.

 

Con le stimmate del noto estremista, a Gorizia, per un anno e mezzo, espletai il servizio militare. Poi mi trasferii a Roma.

 

Nel 1973 ci ha detto.

vincino con la figlia costanza

I primi due mesi, ospite di un amico di mio padre, dirigente dell’Iri, li passai a studiare nottetempo L’asino di Podrecca e Galantara, una storica rivista di satira politica nata alla fine dell’800. Erano disegnatori che raccontavano il mondo e la loro epoca.

 

Lei voleva fare lo stesso?

Fino a quando l’associazione stampa parlamentare furibonda non mi ritirò i permessi, provai a raccontare l’Italia attraverso le trame del Parlamento. Vedevo ogni cosa con i miei occhi e ogni cosa riproducevo. I capannelli dei lobbisti che commissionavano le interrogazioni parlamentari, gli accendini venduti di contrabbando, i piccoli traffici quotidiani. A un certo punto qualcuno disse basta e il gioco finì.

 

RUTELLI VINCINO

Tra i disegnatori c’è competizione?

C’è competizione istintiva, ma a me è sempre piaciuto collaborare. Con Pino Zac, Vauro, Angese e Andrea Pazienza, c’è tutta una storia fitta di scambi, di nottate, di cartoni di pizza, di chine e matite dimenticate sui rispettivi tavoli.

 

Pazienza, proprio in questi giorni, avrebbe compiuto sessant’anni.

Lo conobbi nel ’77, a Milano. E lo rincontrai poco dopo a Bologna. Vederlo disegnare era uno spettacolo. Pazienza era un ragazzo dolce. Un vitalista assoluto che di sicuro non ha cercato la morte. Ha lavorato fino all’ultimo, perché era iper produttivo e ovviamente molto creativo. Sull’ultimo numero di Zut gli pubblicai due fotoromanzi, bellissimi. Con Andrea, Scozzari, Tamburini e un altro gruppo di disegnatori ci eravamo messi in testa di fondare il nostro giornale e partecipammo ad alcune riunioni. Tutti avevamo problemi con gli editori e tutti sognavamo di gestire una realtà che fosse soltanto nostra.

 

IlMale, per un periodo, fu esattamente quel tipo di giornale?

 

vincino dagostino verderami

Assolutamente sì. Il Male fu una storia coraggiosa. I disegni li pagavamo cash. Qualcuno diceva: “Il Male è come un bancomat, sicuro e affidabile”. Io non mi offendevo. Negli anni dell’esplosione creativa de Il Male nacquero legami profondi, amicizie importanti, rapporti sopravvissuti alla chiusura del giornale. Volevo che gli artisti si sentissero a proprio agio. Che potessero permettersi di pensarla come noi fondatori.

 

Cosa pensavano i fondatori?

 

Che tra un lavoro sicuro e ben pagato e l’avventura con qualche incognita, era sempre da preferire la seconda.

BERLU BY VINCINO

 

Perché ilMalechiuse?

 

Non eravamo in grado di istituzionalizzarci né di amministrare una macchina del genere. Se vendevamo 10.000 copie in più, ci aumentavamo subito lo stipendio per alzata di mano.

 

Colleghi che stima? Anni fa a Sabelli Fioretti che le chiedeva chi avrebbe buttato dalla torre tra Altan e Vauro lei salvò Vauro.

 

Quel gioco era brutto e comunque, la risposta era quasi obbligata. Con Vauro avevo condiviso gli inizi e gli inizi sono sempre fondamentali. Altan è una persona civilissima e deliziosa, forse un po’ aristocratica.

 

Aristocratica?

 

VINCENZO GALLO VINCINO

Con le sue storie di Cristoforo Colombo, Altan ci aveva fatti impazzire. Sarebbe stato in grado di disegnare il mondo e invece, pur con talento, ha preferito decontestualizzare le sue figure e rinchiuderle in un tinello. In uno spazio bianco. Astrarle era un suo diritto, ma a me la politica è sempre piaciuto disegnarla toccandola con mano. I congressi, il sudore, le facce. Non a caso mi piaceva tanto il Forattini de La Stampa e de La Repubblica che per primo ebbe il coraggio di disegnare la minchia.

 

Altri colleghi. Giannelli? Mannelli?

 

Giannelli ogni tanto ci azzecca, ma lavorare nei grandi giornali può essere complicato. Mannelli è un grande pittore materico. Vedi un disegno e pensi subito alla carne macilenta della classe dirigente.

GRILLO BY VINCINO

 

Vincino, il più surreale dei disegnatori.

 

Cerco il contrasto. Il conflitto. La sorpresa. La contraddizione. L’emozione che non ti aspetti. Poi è il lettore a doversi fare la propria idea. Ogni tanto mi dicono: “Questa non la capisce nessuno” oppure: “Stai parlando ai 10 che conoscono quell’aneddoto”. “Va benissimo – rispondo – è perfetto. Mi diverte e mi piace così”. Il problema non è ciò che fai o ciò che sei, ma trovare qualcuno che ti pubblichi e ti accetti senza porre veti.

 

Vincino che ha letto Kerouac e non si è mai risparmiato.

Una volta, in tribunale, il giudice mi chiede: “Ma lei si è mai drogato?”.

 

Risposta?

vincino il movimento democratico e liberale unito contro i golpisti salvinisti

“Cosa vuole signor giudice? Io vengo dalla beat generation”. Gregory Corso l’avevo conosciuto, e Allen Ginsberg l’avevo letto a fondo, un paio di Lsd li avevo presi e le canne, volando ad Amsterdam nel 1963 per approdare in chiese sconsacrate in cui si leggevano poesie, le avevo fumate. Più serio sono diventato dopo, ai tempi di Lotta Continua. Di fumo, Sofri non poteva neanche sentir parlare.

 

Ancora convinto dell’innocenza del suo amico Sofri?

Convintissimo e non per fedeltà, né per amicizia, ma per raziocinio: se Adriano avesse fatto una stronzata del genere l’avrebbe confessato senza sottoporsi a tutta la galera che si è fatto.

GOVERNO RENZI BY VINCINO

 

Lei è oltre il garantismo.

Non sono io a essere garantista, è il sistema a essere allucinante. La politica è stata sempre stata sotto ricatto della magistratura provando qui e là con leggine pietose, soprattutto negli anni berlusconiani, a porre un argine al dominio di un potere sull’altro. Ora è tardi.

 

Per cos’altro è tardi?

Per le grida manzoniane, per l’indignazione a comando, per certi casini della giovinezza e per la gente spiritosa.

 

vincino salvini

Lei qualche casino l’ha combinato.

Una volta, con una rivista intitolata Miseria avevamo progettato un contro Massenzio. Un Festival intitolato Miseria 81. I ladri avevano rapinato l’associazione Massenzio e noi eravamo andati fuori dalla sede a provocare Nicolini e i suoi con striscioni e volantini: “Hanno fatto benissimo a rubarvi i soldi”.

 

C’era da restare nemici per la vita. A Renato venne da ridere, si dimostrò intelligente. Detesto chi cova il pregiudizio. Chieda a Vauro se quando andò a trovare Craxi in Tunisia non si commosse fino alle lacrime.

 

A 70 anni Vincino piange o ride?

Mi sono molto divertito e sono stato bene ovunque. A Gela, a 25 anni, quando a seconda di quello che bruciavano le ciminiere l’aria cambiava colore e passava dal viola al giallo, durante gli anni del militare, tra i militanti socialisti che provavano a picchiarmi mentre tentavo a mia volta di partecipare a un comizio vestito da Craxi e persino in galera. Non ho rimpianti, al massimo, con sforzo, qualche temperata nostalgia.