NE VEDREMO DELLE BELLE: VOLANO GIÀ GLI STRACCI TRA I TECNO-PAPERONI CONVERTITI AL TRUMPISMO – ELON…
Federico Scoppio per "l'Espresso"
David Byrne una volta ha raccontato: «Se un musicista dice che desidera completa libertà , sta raccontando una stupidaggine, si lavora meglio con dei limiti». Qualche paletto per il suo nuovo lavoro, "Love This Giant", in uscita il 10 settembre e realizzato in collaborazione con St. Vincent, lo ha messo: una brass band (band di ottoni) al posto della classica formazione con chitarra e batteria.
St. Vincent, nome vero Annie Clark, è una delle più solide cantautrici di nuova generazione, lui un intellettuale anomalo del mondo del rock: fondatore dei Talking Heads a metà anni Settanta, collaboratore di Brian Eno, ha messo in piedi la Luaka Bop, casa discografica che è stata l'altra faccia della medaglia della Real World di Peter Gabriel, meno votata al commercio e più all'esigenza di esplorare le musiche tradizionali di mezzo mondo.
Racconta St. Vincent: «David è meticoloso, abbiamo iniziato a comporre a distanza, scambiandoci idee sulla struttura delle canzoni e rapidamente divenne chiaro che la collaborazione stava aprendo nuove frontiere da esplorare». Del resto Byrne non ha mai smesso di credere nella forza del fare. Tra le sue creazioni più bizzarre ci sono: l'installazione di una serie di rastrelliere poggia bicicletta a New York e un manifesto che è diventato opera d'arte. Ai tempi della competizione presidenziale tra George W. Bush e Al Gore, fece stampare dei manifesti con le facce dei due candidati e la scritta "Huh?".
Nessuno dei due era adatto all'incarico, secondo lui. Li fece affiggere a New York, Chicago e Los Angeles. Di Obama è stato fan ma solo nei primi tempi. «Fin quando ho capito che ha continuato a lasciare le banche in mano ai banchieri». Sarà anche per questo che il suo precedente album, realizzato con Fatboy Slim, il dj più pop che ci sia, era un'opera rock, una biografia critica appassionata di Imelda Marcos, vedova del decimo presidente delle Filippine, simbolo del lusso sfrenato.
Attratto sin da giovane da Cage e Stockhausen, Byrne è fotografo, regista, scrittore, ciclista, più per la necessità di girare a Manhattan che praticare sport. Un suo pezzo è da sempre il brano teaser di Windows Media Player. La sua passione per l'Italia comincia con Bernardo Bertolucci. Del 1987 è la collaborazione con Ryuichi Sakamoto e Cong Su per le musiche de "L'ultimo imperatore": un Oscar, il Golden Globe e il Grammy per la miglior colonna sonora.
Folgorante l'incontro con Paolo Sorrentino, e siamo ai giorni nostri. «Vidi "Il divo" e mi innamorai del suo cinema. Quando venne a un mio concerto a Torino e mi chiese di partecipare al suo film e lavorare alle musiche presi tempo perché non ero convinto, avevo paura fosse azzardato il confronto con il cinema americano, allestire un cast con Sean Penn e tutto il resto.
Ma dopo aver letto la sceneggiatura di "This Must Be The Place" ho accettato, persino mettendomi alla prova come attore in un paio di scene. Avrei dovuto interpretare me stesso. Un'idea folle, così decisi di farmi trascinare dalla recitazione di Penn e improvvisare».
E con la musica italiana che rapporto ha? «Mi piace girare per città come Roma, Napoli, Firenze, Ferrara in bicicletta e scoprire la musica del posto. Alla fine degli anni Novanta scoprii Battiato e gli Avion Travel, frutto dell'amore che ho sempre avuto per Fabrizio De André; ultimamente ho capito, ascoltando "Marinai, profeti e balene", che Vinicio Capossela è un personaggio da seguire con interesse. E, fosse ancora viva, vorrei lavorare con Marisa Sannia, perché le collaborazioni arricchiscono la mia creatività e mi costringono a porre dei freni al mio ego».
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