"CHIESI A DELL'UTRI SE FOSSE PREOCCUPATO PER IL PROCESSO?' MI RISPOSE: 'HO UN CERTO TIMORE E NON……
Ugo Bertone per "Libero Quotidiano"
Paul Singer, il gestore hedge che rivendica 15 miliardi per i bond argentini, è per disgrazia di Buenos Aires, un grande tifoso dell’Arsenal, non del Barcellona di Leo Messi. Forse anche per questo mister Singer, un repubblicano tosto che non ha esitato a finanziare la campagna, vittoriosa, per i matrimoni gay a New York in difesa dei diritti del figlio omosessuale.
Solo uno così poteva ostinarsi per dieci anni per farsi riconoscere il debito, sequestrando navi (come è avvenuto in un porto africano) e citando la repubblica sudamericana nelle corti Usa, fino a farsi dare ragione dalla corte federale di New York, nonostante l’opposizione della Casa Bianca. Ma mister Singer non è solo il re dei falchi, bensì un accorto uomo d'affari.
CRISTINA KIRCHNER E PAPA BERGOGLIO
E così si è fatta strada in questi giorni l’idea che in extremis, (l’ultimatum per l’Argentina scade il 30 giugno) sia possibie trovare un accordo: il presidente Cristina Fernandez, dopo aver ammorbidito i toni «contro gli sciacalli» potrebbe proporre un piano per ripianare, con scadenze allungate il debito (che vale circa la metà delle riserve in valuta del Paese).
Singer e gli altri «avvoltoi» della sua cordata potrebbero accogliere una soluzione di compromesso, fatto salvo il principio caro al gestore per il quale «chi fa i debiti li deve ripagare". Principio già fatto valere con il Congo e il Perù, caduti a suo tempo nella rete. Stavolta, scrive La Naciòn, Singer potrebbe accontentarsi di ricevere nuovi bond spalmati sul 2015. Per la verità un’intesa del genere sarebbe vietata: Buenos Aires, al momento di procedere al pagamento dei Tango bond (ahimè, ben noti ai risparmiatori) si era impegnata a non offrire condizioni migliori ad altri creditori. Ma non sarebbe certo la prima violazione del diritto internazionale da parte di Buenos Aires...
Andrà così? Forse. Comunque la Borsa di Buenos Aires sembra crederci. Dopo un tonfo del 20 per cento sull'onda della sentenza del giudice, ieri i titoli di Stato in dollari scadenza 2033 hanno registrato alla Borsa della capitale un balzo di 9,64 centesimi a quota 87 cent, contro il valore facciale di 100. Diminuisce la pressione sul cambio, che negli ultimi tempi ha provocato un’impennata delle operazioni in bitcoin, la valuta virtuale usata per far fuggire i capitali.
L’ironia della sorte, insomma, potrebbe far sì che la «disgrazia», cioè il rischio default scattato con la sentenza Usa, si possa rivelare un grande beneficio per l'Argentina, che si libererebbe di una spada di Damocle, il debito, che ha pesato non poco sulle sorti della Repubblica. Fin qui la cronaca.
C’è da chiedersi, però, quale sia l’origine dei mali di Bunos Aires, capitale di un Paese ricco di materie prime che, più o meno un secolo fa, contendeva al Canada il quarto posto nella classifica mondiale per reddito pro capite e oggi veleggia nella fascia bassa dei Paesi emergenti.
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Nel 1991 l'Argentina, alla ricerca di uno scudo contro l'inflazione impazzita, decise di agganciare il peso, la moneta locale, al dollaro, nel rapporto di uno a uno. Nei primi tempi l’operazione ebbe successo: l'inflazione scese dal 2314% al 25%, la crescita da negativa salì al 10%, gli investimenti passarono dal 13 al 23% del pil. I guai arivarono più avanti, causa alcuni shock esterni (crisi aisatica, svalutazione del real brasiliano, boom del dollaro sull’euro). Il risultato? Fuga dei capitali internazionali (e domestici), riduzione della spesa pubblica, pressione sul cambio.
Qui, complice l'Fmi, l'Argentina ha commesso l'errore capitale: invece che alzar bandiera bianca e ristrutturare il debito, decise di difendere a oltranza il peso. Fu il disastro: la diga della banche cedette dopo che, in soli tre giorni nel novembre 2001, venne ritirato il 6% dei depositi. E fu default, il più grave nella storia, 85 miliardi.
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Da allora l’Argentina si è ripresa: tra il 2003 ed il 2008 il Paese è cresciuto tra l'8 ed il 9% annuo e ha ripagato per intero il debito con l'Fmi, ha chiuso un accordo sul 35% del valore con il 93% dei creditori. Ha fatto eccezione il 7% capitanato da Singer, che ha rastrellato i tango bond a prezzi stracciati. Ma il peccato originale è rimasto. «Il default e la redistribuzione di ricchezza causata dall a "pesificazione" - ha scritto Luigi Zingales - hanno favorito un clima in cui nessun diritto è sacro».
Nel 2008 sono stati espropriati i fondi pensione, l’anno dopo è stata rinazionalizzata la compagnia Ypf, di proprietà della spagnola Repsol. Intanto il Fondo Monetario ha punito Buenos Aires per le statistiche false sull'inflazione certificata al 10% contro il 25% reale.
Insomma, l'Argentina ha pagato un prezzo pesante per l’incapacità di metter ordine in un sistema corrotto ed inefficiente, condizionato dall’ipoteca peronista sul sindacato e dalle derive autoritarie della giunta militare. In questa cornice la scorciatoia delle manovre valutarie (sia il peso forte che le successive svalutazioni) non risolve in pratica nulla. Così come la tentazione di «farla pagare» ai creditori. Alla fine si paga di più.
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