DAGOREPORT - BENVENUTI AL “CAPODANNO DA TONY”! IL CASO EFFE HA FATTO DEFLAGRARE QUEL MANICOMIO DI…
Estratto dall’intervista di Antonio Gnoli per Robinson-la Repubblica
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Quando hai cominciato a scrivere davvero?
« L'impulso è venuto dopo la morte di mio nonno. Avevo 19 anni. Col tempo mi ero affezionato alla sua figura. Eppure quando morì pensai: meno male che se ne è andato. Ai miei occhi rappresentava la legge. Mi sentii libero di fare qualunque cosa. Una libertà feroce e nevrotica. Mi spaventai al pensiero di non darmi limiti. Cominciai a leggere Foscolo. Di solito a quella età ci si imbatte in Leopardi. Ma ero colpito dall' arditezza di Foscolo, dalle donne che aveva amato, dal potere che aveva cercato di combattere in ogni sua forma. Mi piaceva l' assenza del compromesso. E ho pensato che, se avessi avuto bisogno di una nuova legge, l' avrei dovuta cercare nella letteratura. Perché era la sola autorità che mi consentiva di conservare una certa libertà. Negli anni in cui la mia generazione si identificava con la politica e con l' eroina io ero il navigatore solitario. La letteratura italiana di quel periodo aveva le pezze al culo. C' era solo Tondelli e poco altro. Fu allora che lanciai la mia sfida attraverso la scrittura. Fu un'arma di offesa più che di difesa».
Come un oggetto contundente?
«Se non facesse anche male a cosa servirebbe?».
Non una letteratura del dolore?
« Per carità, niente lacrime, solo pugni che tramortiscano o mettano al tappeto».
So che insieme ai criminali e agli artisti ami la boxe.
«Quando è grande, la boxe è sintesi tra arte e crimine».
In "Arsenale di Roma distrutta" descrivi te bambino che assiste all' incontro tra Benvenuti e Monzón.
«Il Palasport sembrava il Colosseo. Al centro due gladiatori. Intorno una fauna incredibile: macellai, pescivendoli, usurai, prostitute, ladri e criminali. C' erano anche impiegati e giocatori di carte e di biliardo. La Roma slabbrata, minuta e variopinta s' era data appuntamento per il suo idolo: Nino, il campione del mondo che metteva in palio la corona».
Fu una grande delusione.
« Un bagno di realismo, degno di entrare in qualche capitolo del Principe. Furono dodici round di desolante crudeltà, in cui un indio sconosciuto demolì l' eroe popolare. Ne prese il posto. Non rubò nulla. Espresse solo il suo intollerabile e devastante dominio. La gente dai palchi gridava e implorava. Avevo dieci anni, quella sera del 7 novembre del 1970 compresi improvvisamente, come in un lampo, che non c' era poi tutta questa grande distanza tra un artista e un criminale».
Spiegati meglio.
«Non è facile e non vorrei essere frainteso. Ma in tutti i miei libri c' è sempre un segreto nero, una roba feroce, un punto di non ritorno. Quand' ero ragazzino mi capitava di incontrare certe figure ai margini o totalmente fuori dalla legge e, col tempo, ho pensato che sono in un certo senso speculari agli artisti. Entrambi cercano l' assoluto e per questo rischiano il naufragio, il fallimento, la morte».
Non c' è troppa mitologia in quel che dici?
«Può darsi, ma non me ne frega niente. E comunque viva il mito. Conta avere uno stile, se no che cosa conserverebbe la memoria? Quando vidi Benvenuti finire al tappeto al dodicesimo round, fulminato da un colpo di pistola sotto forma di cazzotto, ho capito che uno scrittore, come il pugile, potrà anche diventare campione del mondo, ma finirà quasi sempre per combattere in qualche ring polveroso di provincia. E allora non ti resta che lo stile e la memoria».
AURELIO PICCA ARMANDO TORNO ELISABETTA SGARBI
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Le ambientazioni dei tuoi romanzi rinviano a un mondo post-pasoliniano.
«Del Pasolini narratore non mi interessa quasi nulla. Forse solo il suo romanzo più diroccato, Petrolio, conserva un certo fascino. Mentre è grande cineasta. I suoi film raccontano la sua morte simbolica. E se a Salò-Sade togli la maschera sociale del fascismo, scopri il vero volto di Pasolini, il bisogno incontenibile che aveva di parlare della propria oscenità. È un film che non si riesce a vedere tanto risulta brutale».
Quando parli della sua morte a cosa pensi esattamente?
«Penso alla sua fisicità, che è una fisicità di morte. L' ho sempre visto come un cadavere in movimento che trovò in una città pagana, ermafrodita e barbara come Roma, la ragione di fingere disperatamente pur di continuare a vivere. L' anno in cui fu ammazzato guidavo senza patente. Non avevo l' età. Pensai che anche lui non avesse più l' età per vivere, ma solo quella per rischiare».
BERTOLUCCI PASOLINI E FRANCO CITTI
Lo hai conosciuto?
«No, in compenso ho frequentato Sergio Citti. Una volta Laura Betti mi disse: "Sergio è la mente barbarica di Pier Paolo". Ed è vero. Lo capisci se vedi ‘Ostia’, un capolavoro, perfino meglio di Accattone o Mamma Roma. Era un visionario, Sergio. Spiritoso e tragico.
Una volta parlando di Pasolini disse: "La prima cosa che ho imparato da Pier Paolo è che il pollo non ha quattro zampe ma due!"».
Di scrittori, diciamo non della tua generazione, chi hai frequentato?
«Sono stato amico di Amelia Rosselli. Non parlavamo mai di letteratura. Mi diceva che somigliavo a Tyrone Power, ma che non dovevo fare gli occhi da pazzo. La turbavano. Era, tra l' altro, convinta che la Cia la perseguitasse. Soffriva di paranoie. Un' altra amicizia fu quella con Domenico Rea. Adoravo i suoi racconti. La prima volta che gli fui presentato come aspirante poeta, mi guardò con aria di commiserazione e poi disse: " guagliò è meglio che tu apra una macelleria"».
Mario Guida Fernanda Pivano Allen Ginsberg Domenico Rea
Come reagisti?
«Ci rimasi male, ma lui era un grande. Quando finalmente andai a trovarlo a Napoli parlammo a lungo dei suoi romanzi. "Si vede che hai studiato", mi disse. E poi aggiunse: "ti voglio regalare una cosa". Pensai a un suo libro. A una dedica affettuosa. Mi portò davanti a una cassettiera, l' aprì e disse: "mo' scegliti una cravatta". Era così, Mimì: sorprendente. Un pezzo unico di questo Paese ormai alla deriva».
Non ti piace l' Italia?
«Ho scritto un piccolo poema su questo Paese disgraziato, che ho quasi sempre girato da solo, in macchina: pura psico-geografia. Fermarsi in qualche posto e restare in auto a scrivere le impressioni del momento. Ho sempre adorato le grandi cilindrate: i motori. Meccanica del corpo. Più che della mente».
Che cosa devi compensare?
«Nei momenti difficili sento affiorare il lato ipocondriaco. Penso alla fragilità del corpo, al suo mutare consistenza. Forse è questo che mi fa amare i motori e l' energia pura che sprigionano. Forse è una richiesta d' amore, un bisogno di affetto. Sono sempre stato abituato a vivere da solo. Da ragazzo ero inadeguato. Entravo e uscivo da un equilibrio. Lo sconforto sempre in agguato. Come quando morì mia madre. Un' esperienza devastante. Aveva 67 anni io 44. Se ne andò con solo la vestaglia indosso. In un grande magazzino le comprai un tailleur. Era l' ultimo doveroso tributo di eleganza per una donna che era stata verduraia e gioielliera».
In fondo anche la tua vita è stata segnata dagli opposti.
«Sono stato ricco, per via dell' eredità del nonno, ma anche povero a causa di mia madre che certe volte con i soldi non arrivava alla fine del mese. Ho vissuto nel lusso e nella miseria. Mi sono appassionato di romanzi e di televendite. Ho preso le parti degli spodestati e dei miserabili, ma non ho mai creduto a un mondo migliore. Mi sono smarrito tra criminali di una volta, tenere puttane, boxeur al tramonto, calciatori immensi. Sono stato orfano e figlio di più padri. Aspiro all' immortalità ma so che tutto è destinato a svanire. Forse davvero avrei dovuto aprire una macelleria: la carne è il solo destino che marchia e ci rappresenta».
INCONTRO TRA EMILE GRIFFITH E NINO BENVENUTI
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