CA’ NISCIUN’ È FES-BOOK! - CON LA SCUSA DI PROMUOVERE UN WEB PIÙ CIVILE E TRASPARENTE I CAPOCCIA DEL WEB (FACEBOOK, GOOGLE ETC.) ACCAREZZANO L’IDEA DI DIRE ADDIO ALL’ANONIMATO SU INTERNET: NIENTE IDENTITÀ FASULLE, POST FIRMATI CON NOME E COGNOME, MA SOPRATTUTTO UNA MIRIADE DI DATI PERSONALI DA DARE IN PASTO ALLA PUBBLICITÀ - IL GRUPPO HACKER ANONYMOUS HA GIÀ ANNUNCIATO LA CONTROFFENSIVA: UN SOCIAL NETWORK DI NOME ANONPLUS DOVE NIENTE È COME SEMBRA…

Massimo Gaggi per il "Corriere della Sera"

Mentre aiutano i «blogger» che vivono in Paesi retti da dittature a sfuggire alla repressione degli autocrati con «software» che rendono non rintracciabili le loro comunicazioni (vedi il Corriere di ieri), le aziende del web - soprattutto quelle che gestiscono le grandi Reti sociali - mettono sempre più spesso in discussione il diritto degli utenti di Internet di operare in Rete in modo anonimo.

Dialogare senza rivelare la propria identità, usando pseudonimi, costruendo identità false o comunque di fantasia sono abitudini da sempre largamente accettate dal popolo di Internet. Anche quando portano a vicende come quella di Amina, la finta blogger che mesi fa si dichiarava perseguitata dalle autorità siriane. Costruire identità di fantasia, ricorrere agli «avatar», entrare in Facebook raccontandosi come un diciottenne anche se sei un ragazzino di 11 anni, sono da anni pratiche quanto mai diffuse.

Alle quali, però, da qualche tempo aziende come la stessa Facebook e Google - che da qualche mese ha lanciato la Rete sociale Google+ per cercare di togliere quote di mercato a quella fondata da Mark Zuckerberg - sembrano decise a reagire. Vorrebbero rinunciare all'anonimato in nome di una riscoperta della trasparenza e anche, dicono, di una civiltà del linguaggio che avrebbe tutto da guadagnare da messaggi firmati con nome e cognome. Ma anche per un interesse più venale: più vasta è la gamma di informazioni libere e accessibili, più ampia è l'offerta di dati messi a disposizione delle imprese che fanno pubblicità e che sono interessate a realizzare ricerche di mercato sempre più raffinate.

Nel complicato gioco di specchi della comunicazione sul web, quella dell'anonimato finisce, così, per essere un'altra faccia dell'annoso dibattuto sulla «privacy»: la discussione sull'uso commerciale dei dati personali e la «tracciabilità» di comportamenti, gusti e abitudini dei singoli utenti della Rete che in primavera ha portato anche gli Stati Uniti - Paese nel quale la Costituzione garantisce una libertà di espressione pressoché totale e difficilmente limitabile - a studiare una legge sulla difesa della «privacy». Alla misura, che mira a limitare la circolazione in Rete dei dati personali senza il suo consenso dell'interessato, lavorano congiuntamente John Kerry e John McCain, due senatori, uno democratico l'altro repubblicano, di grande prestigio.

Misura assai delicata, difficile da calibrare. Così come assai delicato è il nodo dell'anonimato: Randi Zuckerberg, la sorella del fondatore di Facebook che ha recentemente lasciato l'azienda, da tempo va sostenendo che l'anonimato deve sparire dalla Rete. Quando, poi, la settimana scorsa il presidente di Google Eric Schmidt ha detto a una manifestazione tenutasi a Edimburgo che Internet sarebbe un luogo migliore se si sapesse se un utente che invia un certo messaggio è una persona in carne ed ossa, un utente finto o uno «spammer», le reazioni dei «puristi» della Rete sono state assai vivaci.

E i primi tentativi di Google di mettere al bando gli «account» anonimi hanno spinto gruppi anarco-libertari di Anonymous.com ad annunciare il lancio di una Rete sociale con la caratteristica specifica dello scambio anonimo chiamata AnonPlus. Difficile dire se la cosa prenderà piede. L'anno scorso Diaspora, un'iniziativa in parte simile, concepita come Rete sociale «open source» in contrapposizione a Facebook, non riuscì a decollare. Del resto la lotta all'anonimato è giudicata da molti anche una battaglia di civiltà, un modo di contenere gli eccessi del linguaggio usato in Rete che è diventato piuttosto aggressivo.

La tendenza - tra introduzione di nuovi vincoli normativi ed evoluzione dei dispositivi inseriti dai gestori delle Reti nel loro software - sarà, quindi, quella di andare speditamente verso l'abolizione dell'anonimato? È presto per dirlo, la discussione non ha ancora preso un indirizzo ben definito. Ieri, ad esempio, il «columnist» del Financial Times John Gapper ha dedicato alla questione una lunga riflessione nella quale, rilevati i vantaggi e il valore civile di una limitazione dell'anonimato, mette, però, anche in guardia dai rischi insiti nell'eliminazione della possibilità di comunicare senza rivelare la propria identità.

Rischi per la democrazia e la libertà di tutti i cittadini: nei regimi dittatoriali dove lo stesso governo americano cerca di aiutare i dissidenti a comunicare senza poter essere individuati, ma anche nelle società democratiche compresa quella americana. Dove, ricorda l'autore, la Corte Suprema ha stabilito ancora nel 1995 che quella di produrre «pamphlet» anonimi, lungi dall'essere una pratica perniciosa o fraudolenta, è una tradizione positiva, un modo di «sottrarsi alla tirannia della maggioranza». Il dibattito è aperto. È molto complesso e animato da interessi spesso configgenti. Non sarà facile venirne a capo.

 

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