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Non è piaciuto affatto il cosiddetto ''Decreto Dignità'' alla ricca e laboriosa base leghista nel Nord Italia. Il telefono di Giorgetti era incandescente per le chiamate di molti imprenditori lombardi, veneti e piemontesi furiosi per le nuove norme, uno schiaffo al tessuto produttivo che negli ultimi mesi aveva ricominciato a macinare e pure a creare nuovi posti di lavoro. In molti hanno avvertito il plenipotenziario leghista, che con Conte e Di Maio ha presentato in pompa magna il testo: se il partito perde la sua identità, al prossimo giro perde pure i voti. ''Se vi sta tanto a cuore il Meridione, andateveli a cercare là i consensi''.
Ovviamente Giorgetti ha fatto quello che fa sempre, ovvero mediare tra le sparate di Salvini e il resto del mondo. Ha fatto capire al ministro dell'Interno che è ora di un provvedimento che faccia contenti anche gli storici elettori leghisti, e che non si limiti all'accanimento contro i migranti.
Non è facile: il governo non può permettersi di indebolire il nuovo cocco della Camusso, ovvero Di Maio: è con lui che regge il patto di ferro grillo-leghista, e il leader campano è già vittima di un M5S diviso in tre: i suoi fedelissimi; i duri e puri con Grillo; l'ala sinistra con Fico. Sconfessare il Decreto Dignità vorrebbe dire piombare le ali di Luigino. Per ora, non si può fare.
lorenzo fontana e giancarlo giorgettisalvini giorgetti
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