IL SONNO DELLA RAGIONE GENERA MOSTRE - IN ITALIA, PIÙ CHE ALTROVE, LE MOSTRE D’ARTE SONO SOLO UN PRETESTO PER FAR GUADAGNARE I PRIVATI CHE GESTISCONO LIBRERIE, BAR E RISTORANTI NEI MUSEI

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Tomaso Montanari per "Il Fatto Quotidiano"

Uno dei problemi delle mostre è che se ne parla solo in pagine di giornali comprate a caro prezzo dagli sponsor o dai produttori di quelle mostre. Dunque è difficile avere una guida affidabile: una che ti dia le stellette della qualità (fino a tre), ma anche le crocette dell'abiezione (per farci una croce).

Ma visto che questa pagina non l'ha comprata nessuno, ci possiamo provare. Prendiamo due mostre su Canova: quella alle Gallerie d'Italia di Intesa San Paolo a Milano (e che poi andrà al Metropolitan di New York) presenta sei opere inedite e splendide, ritrovate per caso alla Galleria dell'Accademia a Venezia, ed è un piccolo gioiello.

Dunque merita tre stellette. Quella di Assisi, invece, merita tre crocette: perché è una mostra di occasione, senza un vero scopo se non promuovere la candidatura di Perugia e Assisi a capitali europee della Cultura nel 2019. E anche perché a causa sua è andato distrutto un preziosissimo originale di Canova.

Anche Antonello da Messina al Mart di Rovereto merita almeno due crocette. Perché le opere sono meravigliose, ma la mostra sfrutta il nome di un grande maestro del passato per portare il pubblico in un museo d'arte contemporanea, senza creare alcun dialogo tra passato e presente. Senza dire che ha strappato alle loro collezioni siciliane (anche attraverso pressioni politiche) opere che non avrebbero dovuto viaggiare. E il catalogo in forma di intervista al curatore segna un punto di non ritorno nella degenerazione pop-narcisista del genere mostra.

Tre crocette piene per Amore e Pische a Palazzo Te a Mantova: una specie di minestrone di opere il cui nesso è chiaro solo al curatore (o almeno lo si spera), e che nasconde gli affreschi di Giulio Romano con una serie di paraventi da ospedale: davvero pessima.

Tre crocette con speciale menzione di desolazione per la mostra-kolossal Verso Monet, che apre dopodomani alla Gran Guardia di Verona e che ricopre di pubblicità le prime pagine dei giornali. È il sequel sul paesaggio dell'aberrante Raffaello verso Picasso che l'anno scorso infestò la Basilica Palladiana di Vicenza.

Stesso taglio a-storico e pseudo-lirico: inconfondibili marchi di fabbrica del mostrificio diretto da Marco Goldin, geniale imprenditore delle mostre-trash. Il comunicato stampa si conclude con una citazione da Monet: "A chi gli chiedeva se dipingesse ancora dal vero, rispondeva che questo non era interessante, perché ‘il risultato è tutto'". Non si fatica a vedere il transfert di Goldin: a chi gli chiede se queste ammucchiate di capolavori sono ancora mostre, egli risponde che la questione non è interessante: il risultato al botteghino è tutto.

Veniamo in Toscana: due crocette per Andy Warhol a Pisa, che draga collezioni di secondo ordine per farci credere di essere a Manhattan: invano. Una stella per Diafane Passioni. Avori barocchi dalle Corti europee: a parte il titolo da fotoromanzo, la mostra meriterebbe anche di più, ma stringe il cuore vedere la condizione del Museo degli Argenti di Palazzo Pitti, che la ospita. Tra polvere, cartellini sconnessi e annoso disordine, viene da chiedersi se non sarebbe meglio curare ciò che è stabile, prima di dedicarsi all'effimero.

Tre stelle invece per la raffinata mostra sul Gran Principe Ferdinando de' Medici, agli Uffizi. Una mostra fondata su una ricerca vera, ma capace di parlare a tutti. Quasi un miracolo, a Firenze.

A Roma c'è una situazione paradossale: il bimillenario di Augusto si celebra alle Scuderie del Quirinale (con una mostra da una crocetta almeno: confusa, allestita male, incapace di comunicare), mentre l'Ara Pacis, il monumento augusteo per eccellenza (ora purtroppo racchiuso nello scatolone di Richard Meier), ospita una mostra che si intitola Gemme dell'Impressionismo (peraltro da una stella: i quadri sono bellissimi): ma è possibile una simile schizofrenia?

La domanda vera, tuttavia, è: perché negli ultimi vent'anni in Italia si sono fatte molte più mostre che in America, in Germania o in Francia? E perché queste mostre sono mediamente molto più pretestuose, brutte, inutili? Certo, fa piacere vedere che a Torino centinaia di persone fanno la fila sotto la pioggia per vedere Renoir alla Galleria d'arte moderna, ma è un fatto che in Italia, più che altrove, le mostre sono spesso diventate un fenomeno prettamente commerciale.

La colpa è dell'onda lunga dell'idea di Alberto Ronchey (ministro per i Beni culturali tra il 1992 e il 1994) di dare in concessione ai privati i cosiddetti servizi aggiuntivi dei musei: librerie, shop, ristoranti, ma anche "l'organizzazione di mostre e manifestazioni culturali, nonché di iniziative promozionali" (così l'articolo 117 del Codice dei Beni culturali). Da allora non c'è concessionario dei "servizi aggiuntivi" dei musei (che si chiami Civita, Electa o Mondomostre) che non organizzi ogni anno dieci-ne di mostre.

E se la privatizzazione non è riuscita a fare avere ai musei italiani un ristorante o una libreria decenti, è però invece perfettamente riuscita a trasformare le esposizioni da occasione di formazione collettiva in una specie di luna park, tunnel degli orrori incluso.

E ormai quella del curatore di mostra è divenuta una professione autonoma: proprio ieri la Fondazione Prada e la Qatar Museum Authority hanno lanciato a Venezia un concorso internazionale per curatore di mostra. I candidati devono presentare un video non superiore a due minuti (!) e una pagina in cui spiegano come e perché vorrebbero fare una mostra.

Che sarebbe come bandire un concorso per "scrittori di saggi scientifici": uno fa una mostra quando ha qualcosa da dire (alla comunità scientifica e al grande pubblico), non lo può fare di professione, "a prescindere". Non per caso, un concorso per recensore di mostre non lo bandisce nessuno.

 

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