DAGOREPORT - CON UN MINISTRO DEGLI ESTERI (E UN GOVERNO) ALL'ALTEZZA, CECILIA SALA NON SAREBBE…
Marco Molendini per Dagospia
L'ultimo, sublime maestro del jazz, pianista dal tocco sopraffino in perenne sfida con se stesso alla ricerca dell'assoluto, è sprofondato in un misterioso silenzio. Sono oltre due anni e mezzo, dal concerto alla Carnegie Hall di New York nel febbraio del 2017, che Keith Jarrett non suona più.
Nel 2018 sono stati annunciati dei suoi concerti tutti puntualmente cancellati per problemi di salute definiti «a lungo termine», compresa una performance alla Biennale di Venezia che gli aveva attribuito il Leone d'oro alla carriera. Da allora più nulla, se non una serie di voci, molto preoccupanti sul suo stato di salute.
Si era parlato di una recrudescenza di quella sindrome virale da affaticamento cronico che, sul finire degli anni Novanta, lo aveva tenuto lontano dall'attività musicale. Ma le cose, pare, sarebbero più gravi, con la mano destra bloccata e un recupero assai difficile, se non impossibile. Siamo nel campo delle ipotesi, sia pure con qualche conferma che viene dal mondo della musica. Con Jarrett sta succedendo un po' quello che da noi è successo con Franco Battiato, protetto da un muro familiare che ha allontanato pressioni, preoccupazioni, morbosa curiosità.
E' lecito e il riserbo va rispettato, ma c'è anche una giusta ansia che tocca la platea di chi ascolta, apprezza, stima quei musicisti. Del resto è proprio su quel sentimento che punta chi prova a tener viva la loro presenza continuando a pubblicarne l'opera. Ora sta per uscire, sarà pubblicato il 18, un album di Battiato che è stato definito nuovo, ma che contiene la registrazione del live di due anni fa con la Royal Philarmonic orchestra e un inedito, Torneremo ancora.
franco battiato con la royal philharmonic concert orchestra 4
Così per Jarrett è stato annunciato un disco dal vivo che risale al 2016: è intitolato Munich, sarà disponibile dal primo novembre. Per il settantaquattrenne pianista di Allentown non è una novità, nel senso che da tempo le sue pubblicazioni discografiche sono rappresentate solo da live (negli ultimi anni registrava tutte le sue performance). Insomma, c'è parecchia roba pronta a tener viva la sua arte per anni e anni.
Ma il fatto che il suo nome sparisca dai cartelloni dei festival e dei concerti è per il jazz, e non solo, una notizia pesantissima, visto che è l'ultima grande star ancora in pista, la cui fama è accompagnata dalla scia leggendaria del Kohln concert e delle meravigliose performance del trio con Gary Peacock e Jack De Johnette.
E poi, a rendere ogni suo concerto un evento speciale c'era, oltre all'indubbia maestria, il peso dell'imponderabile: bastava un colpo di tosse, un flash, un telefonino che scattava una foto per provocare il collasso. Come ricordano gli spettatori di Umbria Jazz costretti, anni fa a seguirlo in un concerto al buio (aveva fatto spegnere tutte le luci per impedire gli scatti fotografici), o i parigini della Salle Pleyel quando, cinque anni fa, interruppe la sua performance, disturbato da un impertinente colpo di tosse che, erano sue parole, «uccideva la musica».
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