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Estratto dell’articolo di Roberta Scorranese per il Corriere della Sera
Se non fosse poco «aspesiano», ci si potrebbe addirittura lasciar abbracciare da un velo di ottimismo: Natalia Aspesi è tornata. Con la sobrietà di poche righe affidate in chiusura dell’ultima sua posta del cuore sul «Venerdì» di Repubblica , la giornalista 93enne ha dato un nome al silenzio (intermittente) della sua rubrica nelle ultime settimane. «Lo sapevi che era un ictus? Lo sapevi che si chiamava ictus?», ha scritto.
Aspesi ha deciso di raccontare quello che è successo.
A modo suo, rievocando con ironia l’arrivo dei soccorritori: «C’è un giovanotto grandioso in divisa vistosa che vuole portarmi con sé, ma a me non sembra una persona degna di questo compito. Prima di me ce ne sono altre, prima di me ce ne sono altre, mi dico...». Quindi il racconto della nebbia, del non ricordo: «Sono passati dieci giorni — o forse un po’ di più — e a me non parevano, forse uno, forse due, ma dieci giorni... scomparsi... per sempre...».
La diagnosi, per quella che è stata tra i fondatori di Repubblica , è stata ictus. Aspesi si trovava nella sua abitazione di Milano quando si è sentita male. La corsa in ospedale, quindi il ricovero. Ora si trova a casa, parla normalmente con amici e colleghi al telefono e si sta riprendendo.
Nella rubrica, dopo il cenno al coma, ecco il risveglio e la consapevolezza, perché, come annota la firma di costume e cultura: «Poi non sei più quella di prima e quando te lo raccontano allora sì che non è più come prima». Famosa per le sue risposte affilate e per la sottile perfidia che mette quando interviene nelle faccende sentimentali, la giornalista qui però ha voluto concedersi un’autentica questione di cuore, accennando alla propria fragilità e a quella che attecchisce nelle persone colpite da un male: «Tutti a dirti che brava, come ti stai riprendendo... ma quello che penso è che non sarà mai più come prima. Mai più come prima.
Mai più. Lo penso, e nello stesso tempo mi dico che non è così. Perché io so che ci sto mettendo tutta la mia forza, e mi sforzerò di superare questa cosa».
E in questa rara incursione nei sentimenti personali, la scrittrice che tante volte nei suoi libri ha indagato con distacco i cambiamenti sociali, le controversie culturali del nostro tempo, ha voluto concedersi una promessa, forse addirittura una speranza: «Leggo le vostre lettere, le lettere sono sfumate, non sono mie, mi appartengono e non sono mie, le vivo su di me e non sono d’altri, i progetti si scolorano e perdono senso. Ma sono qui alla mia scrivania, e qui voglio sforzarmi, un giorno dopo l’altro spero, con accanimento, di trovare la via facile, come per il passato». E per una donna nata nel 1929 è una questione non solo di cuore, ma anche e soprattutto di fibra.
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