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Francesca D’Aloja per https://www.corriere.it/futura/ , la newsletter del ''Corriere''
Quando l'ho conosciuta avevo circa vent'anni e stavo, come si dice, «muovendo i primi passi» nel mondo del cinema, ma la ragione del mio incontro con Laura Antonelli non ebbe nulla a che fare con il cinema. Mio fratello maggiore si era fidanzato con lei, erano andati a vivere insieme, e di conseguenza Laura, per alcuni anni, fece parte della mia famiglia.
Era più grande di lui e molto più grande di me, ma nonostante la differenza di età si stabilì fra noi un'intesa immediata. Forse in me riconosceva lo stesso ingenuo entusiasmo nei confronti di un lavoro che a lei aveva dato tanto ma che sapeva essere ingannatore.
Il declino verso cui sarebbe scivolata era ancora lontano, ma i segnali, seppur labili, erano già presenti, anche se nessuno di noi, di fronte alla bellezza ancora impressionante dei suoi quarant'anni, alla dolcezza della sua voce da bambina, alla gentilezza che avvolgeva ogni suo gesto, avrebbe mai potuto immaginare la pena che l'attendeva.
Ciò che più mi colpì, sin dall'inizio, fu la sua generosità. Pur possedendo gioielli, vestiti e oggetti meravigliosi in grande quantità sembrava non considerarli come cosa sua, e se ne liberava con gioia; non so se giudicasse i suoi averi come doni transitori e tutto sommato immeritati, dubito fosse il prodotto di un ragionamento, sembrava una sua naturale attitudine, l'elemento cardine della sua personalità, così evidente nel periodo felice, tanto più in quello infelice e finale.
Ricordo un pomeriggio, nella bellissima casa di Via Campo Marzio, trascorso di fronte al suo guardaroba ordinato su centinaia di stampelle appese nel closet (non era un armadio il suo, era un'intera stanza). «Prendi quello che vuoi», mi disse, e cominciò a tirar giù abiti di ogni foggia e colore, alcuni dei quali mai indossati, doni di stilisti adoranti o acquisti fatti in giro per il mondo. Sembrava così felice di «vestirmi», per una volta era lei la costumista e io l'attrice, si divertiva come una bambina con la sua Barbie, non le era forse mai capitato di farlo, Laura non aveva figli e nemmeno sorelle.
Tempo dopo si trasferì, insieme a mio fratello, nella villa a Cerveteri, vicino Roma. Andavamo spesso a trovarli, con mia madre e mia sorella. Lei era come sempre molto ospitale, le piaceva sentirsi parte di una famiglia. Si trascorrevano ore spensierate intorno alla piscina, raccoglievamo i prodotti dell'orto (dove cresceva la più buona insalata che io abbia mai mangiato) e tutto appariva pacifico.
Poi, invariabilmente, a un certo punto si ritirava nella sua stanza. Ci salutava sorridendo (sorrideva sempre, Laura) e si eclissava. Non l'ho mai vista assumere un atteggiamento da primadonna, ci si dimenticava fosse un'attrice famosa, a casa era una persona qualunque, a casa era Laura (anche se, quando verso sera riappariva per andare a cena fuori, vestita e truccata con l'accuratezza di chi è abituato a stare sotto i riflettori, la sua identità pubblica emergeva prepotente e fuori diventava la Antonelli).
Era un'apparizione. Sarebbe troppo facile scomodare il titolo di uno dei suoi film più famosi, e non lo farò (pur considerando, ora, mentre scrivo, la coincidenza inquietante nascosta in alcuni titoli dei suoi film…).
Dopo la fine della sua storia d'amore con mio fratello la persi di vista, ero presa dal mio lavoro e dalla vita.
Pochi anni dopo seppi del suo arresto.
Ricordo la sensazione di straniamento e l'assoluta certezza che la persona di cui parlavano i giornali non fosse lei. Non riuscivo ad associarla al ritratto di spacciatrice e consumatrice di droga (l'accusa fu di traffico di stupefacenti), non potevo credere che la villa incantata di Cerveteri fosse diventato un luogo di perdizione e come accade quando una cosa non ci piace, mi voltai dall'altra parte ed egoisticamente ignorai la faccenda.
Lucrezia Lante Della Rovere Francesca d Aloja Urbano Barberini
Trovai il coraggio di andarla a trovare qualche anno dopo, quando i guai giudiziari si erano risolti e quelli esistenziali, invece, cominciavano ad accanirsi. Niente più villa, niente più bellezza. Si era trasferita in una squallida casetta dai mattoni di tufo, senza intonaco e parzialmente dismessa. Passava le sue giornate in una stanza dalle pareti ricoperte di ex voto e crocifissi, era in preda a un delirio mistico e quando la vidi stentai a riconoscerla. Era molto ingrassata e parlava in modo strano, discorsi illogici pseudo religiosi.
laura antonelli uncut dvd be5f
Le poche cose che si erano salvate dalla razzìa degli avvoltoi che avevano approfittato della sua debolezza erano state accantonate in un magazzino di lamiera. C'erano i suoi mobili impolverati, le poltrone su cui avevamo fatto tante chiacchiere, il tavolo da pranzo… Tutte cose che presto sarebbero sparite, facile bottino di chiunque. Non aveva più un soldo e non li avrebbe mai chiesti.
Con mia sorella le proponemmo di comprare parte di quei mobili prima che li regalasse a qualche sconsiderato e per fortuna accettò. Nelle nostre case è rimasto qualcosa di lei, ed è una cosa bella.
Passano altri anni, brutti per lei, sereni per me. E arriviamo così alla parabola finale. Quella che me l'ha fatta ritrovare.
È cominciata con una telefonata. Marco Risi, il mio ex marito (ed ex fidanzato di Laura, tanti, tantissimi anni addietro… è strano come Laura abbia a che fare con i miei legami familiari…) mi disse che aveva recuperato il suo numero di telefono, le aveva parlato. L'ultimo domicilio di Laura era a Ladispoli, viveva lì da qualche anno e non vedeva più nessuno. Annotai il numero e la chiamai.
«Ciao Laura, sono Chicca…».
La sua vocina da bambina faticava a emergere fra le parole impastate di tranquillanti e alcool però c'era, era ancora lì, cristallina e innocente. Le chiesi come stava, pentendomene amaramente subito dopo. Ma lei rispose senza indugi, «Bene» disse, «sto bene…» poi cominciò a raccontarmi i sogni che faceva, mi rivelò che aveva più volte parlato con Bibi (era il nome di mia madre, a cui era molto affezionata), che comunicava con i morti (a Marco disse che parlava con suo padre Dino…) e lo ripeteva con gioia, non un'ombra di tristezza nelle sue parole.
Cominciammo a telefonarci reciprocamente a cadenze regolari finché decisi che fosse giunto il momento di rivederla. E con Marco partimmo per Ladispoli.
Stava seduta su un divanetto sfondato in una stanza buia semivuota. Accanto un tavolino su cui era poggiato il telefono, di fronte una libreria sguarnita, con soli tre volumi. La abbracciai forte e faticai a non piangere. Lei sorrise e quello fu l'unico dettaglio, insieme agli occhi, liquidi e belli, che mi permise di riconoscerla. Il resto era scomparso.
Mi guardai intorno: in fondo a un piccolo corridoio c'era una stanzetta con una brandina, la sua camera da letto. La cucina era in ordine ma drammaticamente sprovvista di ogni cosa, il frigo semivuoto.
Parlammo a lungo, nonostante la vaghezza si ricordava tante cose, i discorsi viravano sempre su memorie comuni e mai, mai un cenno alla sua vita di attrice. Le chiesi ingenuamente se avesse bisogno di qualcosa, no, non voleva nulla. «Ti piacerebbe un televisore?» pensando che potesse farle compagnia. Scoppiò a ridere e disse «No, no per favore».
Allora, senza chiederle il permesso, decidemmo di andare a fare un po' di spesa lì sotto. Ne fu contenta. Provammo a farla uscire, «Andiamo al mare!» ma rifiutò. Tornammo altre volte, con buste della spesa e vestiti comodi di ricambio. Lei era sempre serena e sorridente, non si lamentava mai.
L'ultima volta volle lei farmi un regalo. Prese uno dei tre volumi, e sul frontespizio scrisse una dedica: «A Chicca da Laura con tanti auguri e buona lettura». Era la Bibbia.
Al suo funerale c'era tanta gente. Alcuni, attirati dalle telecamere e dai fotografi erano entrati in chiesa con gli infradito ai piedi, direttamente dalla spiaggia antistante. Si dice che in una piccola località ci si conosce tutti, eppure sono certa che fra i suoi concittadini lì presenti in pochi la conoscessero, e convinta che a pochi sia davvero importato di lei, e che di colpevoli ce ne siano tanti, me compresa.
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