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Malcom Pagani per Vanity Fair
Storia di Renato Fiacchini, in arte Zero: «Ho sempre lavorato più di quanto non sarebbe stato lecito, amato più di quanto non avrei dovuto, salutato più di quanto la saggezza non avrebbe consigliato.
Da una parte ho riempito il mio armadio di tutti i colori, le scelte e le avventure possibili per vivere intensamente, dall’altro ho dovuto fare i conti con la consunzione e con l’usura che investe inevitabilmente i soggetti come me. Per sentire, vedere e soffrire di più, un pedaggio si paga». Non lo capivano.
«Il 24 dicembre del 1974, al Folk Studio di Roma in Via Garibaldi, cantai per un solo spettatore. A sera tardi passò Venditti, mi vide, si mise al pianoforte e suonò insieme a me». Lo hanno studiato: «Quando da ragazzo uscivo vestito di piume per le strade della Montagnola, il quartiere in cui sono cresciuto, mi gridavano cose cattive e mi riservavano scherni, lazzi e ironie grevi. Io rispondevo: “Perché dite così a Renatino vostro? Venite qui che vi offro la colazione».
Lo hanno amato: «È successo perché sono stato stato curioso. Il giudizio degli altri mi ha spinto a cercare di capire e non a chiudermi in me stesso, ad analizzare le ragioni di quelli che mi scagliavano addosso aggettivi e identità forzate, più che a rispondere a tono.
Un’analisi che ho svolto sul marciapiedi e dal palco, senza mai essere settario. Noi artisti siamo cibo per gli altri. Ti stavo sul cazzo a prescindere? Mi incasellavi? Dicevi che ero caviale o mortadella con assoluta certezza? Ho provato a essere sia caviale che mortadella perché il pubblico, anche quello pieno di pregiudizi, per me aveva un valore. Indietro, non ho mai lasciato nessuno.
Amici e nemici li ho sempre guardati negli occhi».
Ora che il tempo ruba i contorni alla fotografia di ieri, ecco il domani. Zerovskij, 130 elementi sul palco, recita, musica, scrittura, virtuosismi, è diventato un film in sala dal 21 per Lucky Red, indagare sul concerto all’Arena di Verona, uno spettacolo tra passato e futuro, alto artigianato e droni, equivale a esplorare le ragioni di un rivoluzionario senza bandiere che a settembre, nel cinquantennale del ‘68, compirà 68 anni. «Con le mie canzoni, nei decenni, ho raccontato molto di me».
Chi è stato Renato Zero?
«Forse un anticipatore. Ho immaginato scenari che poi si sono realizzati, predetto evoluzioni e involuzioni e forse è proprio per questo che a 67 anni sono ancora su un palco. La lungimiranza è un elisir, non è un caso che i profeti sò campati più a lungo degli altri».
Da dove è partito il profeta Zero?
«Da una casa nel centro di Roma, nel 1950. Ci sfrattarono presto, per mandarci in periferia, alla Montagnola. “Avrete più spazio- ci dicevano- non dovrete più dividere con gli altri il cesso sul ballatoio”. La periferia allora era in aperta campagna. Arrivarci era un viaggio tra le pecore e i pastori».
Suo padre Domenico era poliziotto.
«È morto nel 1980 e di me è stato sempre fiero. Senza impormi nulla, suggerirmi niente, pretendere che fossi qualcos’altro da me. Era rimasto a lavorare in centro, nel commissariato Campo Marzio. Ogni tanto i suoi colleghi, ragazzi per cui eravamo più o meno carne da macello, facevano retate casuali. Quelli “strani”, a partire dai capelloni, finivano tutti nel blindato della Ps. Papà era diverso. Mi incontrava, con lo sguardo dolce, nei corridoi illuminati dal neon: “Ancora qui ti trovo?”»
Cosa significava uscire vestito “da Zero”, dopo essersi cambiato negli androni, nella Roma bigotta di inizio anni ‘70?
«“È arrivata la sposa” dicevano. Alcuni, profittando del dubbio sulla mia sessualità, amavano scaricarmi addosso colpe, frustrazioni e responsabilità che non avevo. Ero una proiezione delle repressioni e mi innalzavano al ruolo di scandalo vivente. Se fossi stato debole, quell’atteggiamento avrebbe potuto pregiudicare la mia resistenza nel mondo dello spettacolo. Che è un mondo duro, difficile, spietato».
Invece?
«Sono stato forte, anche se ho sempre pensato che al cattivo gusto, alla violenza verbale e alla brutalità di certe recinzioni che volevano mettermi attorno impedendomi di dare sfoggio di una libertà a 360 gradi, bisognasse reagire con l’ironia e con l’invenzione rabbiosa.
Lavoravo come gli anarchici facevano negli scantinati. Stampavo i miei pezzi da carbonaro, su rotative arrugginite e annerite per l’incazzatura. Nelle canzoni mettevo tutto. Le negatività, i rifiuti, le porte in faccia, i razzismi, le speranze, la libertà. Se c’è stato malessere, comunque, non mi sento di disconoscerlo. Mi è servito. È stato carburante. Mi ha permesso di marciare e mi consente di farlo ancora oggi».
L’ironia a chi la riservava?
«A chi andava sedato. Quando nel buio di un club sentivo qualcuno che mi prendeva in giro o mi insultava, avevo una preoccupazione immediata».
Quale?
«Non essere più in minoranza. Ribaltare lo schema che vedeva “l’occhio di bue”, la luce, puntata costantemente su di me e orientare il riflettore sullo stronzo di turno. Finalmente allo scoperto, non più in ombra, gli strafottenti si facevano piccoli e diventano agnellini.
Allora mi avvicinavo, li spogliavo e con la canottiera in mano davo vita a una sorta di asta di beneficenza. “Ti sei vestito male, cara, ma devi mettere il raso perché il raso fa puttana”. Quello impallidiva. Cercava la fuga. L’uscita di sicurezza. Un posto per nascondersi. Io lo inseguivo. Era come un maestro di scuola che insegna l’educazione agli studenti maleducati. Una voce è sempre coro».
E perché lo faceva? Per orgoglio?
«Perché dovevo vendere il disco anche a quelle persone, anzi, soprattutto a loro. Volevo vederli in faccia, sapere chi erano, dar loro la responsabilità di seguirmi. Credo che quei dialoghi siano serviti e che tanti di quei signori mi abbiano accompagnato in questi decenni senza perdersi un solo spettacolo».
Per quale ragione secondo lei?
renato zero e maria de filippi
«Perché sono riuscito a trovare un compromesso tra i Parioli e il Mandrione, tra i ricchi e il popolo, tra chi declinava correttamente il congiuntivo e chi non aveva studiato. Lo stesso compromesso a cui sono arrivati Alberto Sordi, Nino Manfredi e Gabriella Ferri. E un buon compromesso, per un artista, non è mai disdicevole. In fondo sono stato Bilancia, come il mio segno zodiacale».
Cos’è disdicevole per un artista?
«Vendersi. Non l’ho mai fatto, anche se in tanti avrebbero voluto comprarmi».
Ha citato Gabriella Ferri. Negli ultimi anni, questa grandissima artista, attraversò la disperazione.
«A differenza di Gabriella, di Mia Martini o di Rino Gaetano, ho avuto fortuna nelle proporzioni. Tra morbosi di professioni, sindacalisti dell’amore e popolo saggio, ha prevalso la terza categoria di persone. Ha prevalso l’intelligenza.
Mi hanno trasmesso fiducia, era come se mi dicessero: “Puoi essere quello che vuoi e qualunque cosa tu voglia essere, ci stai bene così”. C’è stata complicità, alleanza profonda, condivisione. Quelli che sembravano più numerosi comunque, i custodi della morale, forse oggi si vergognano di essere diventati una minoranza».
E perché si vergognerebbero?
«Perché avevo ragione, perché quelle minoranze che difendevo, oggi sono milioni e milioni di italiani. Erano pochi o poco visibili. Non si denunciavano e per loro, per quelli considerati diversi, un’anagrafe non esisteva. Per incontrarli dovevi scendere in basso, sporcarti con il fango, fare come Pasolini, rischiare una varicella in più in una favela. Un luogo comunque preferibile ai tanti salotti in cui l’identità sessuale, per essere accettata, aveva bisogno di una mano di fondo tinta, di una negazione, di una bugia».
Che tipo di bugie erano?
«La bugia più pericolosa è raccontare un benessere che non c’è. La famiglia della pasta Barilla non è lo specchio di questo paese. Quel tavolo con sei persone non c’è più. Forse c’era negli anni ‘50, ma non esiste più da un pezzo».
Si è sentito importante per chi cercava una liberazione?
«Vestirmi, truccarmi, osare anche una ricchezza visiva era già un’eresia. Ho proposto un’estetica che non era facilmente trattabile in una condizione come la mia: figlio di un poliziotto, cresciuto in borgata, di umili natali. Mi sentivo sfacciato come Charlie Chaplin, uno che nella sua povertà era ricco. Uno che sotto la bombetta nascondeva la fortuna dello spirito e di una comunicazione sfacciata».
Cosa c’era di così straordinario?
«Gliela metto giù semplice. Se ti travesti, ti trucchi e vai sul palco dai vita a una liturgia che è così ovvia da far schifo. Ma sei fai la stessa operazione su un marciapiede, non hai la suadente ruffianeria della luce che ti illumina, ma quella di un lampione, la prospettiva cambia. Io andavo in giro come se fossi stato all’Olimpia di Parigi e invece stavo sui marciapiedi di Tor Marancia o della Garbatella. La scena ti giustifica in pieno, il marciapiedi è meno indulgente».
renato zero, danilo madonia, stefano senesi photo andrea arriga
Cosa capitava sui marciapiedi?
«Una volta mentre facevo l’autostop sull’Olimpica per andare al Titan. Si fermò un automobilista. Mi avvicinai sorridendo: “Che bello, ho rimediato un passaggio”. Quello scese e mi diede uno schiaffo che me staccò la testa. Un manrovescio così forte da demoralizzarmi. Feci marcia indietro e tornai indietro. La prima e forse anche l’ultima volta che mi sono arreso».
il maestro renato serio photo andrea arriga
L’inizio, con Gianni Boncompagni, non fu esaltante.
«Avevo 17 anni e Gianni inventò il cognome che ancora mi accompagna, giocando sul fatto che c’era più di uno che mi diceva “vali poco meno di Zero”. Il primo 45 giri con due brani “Non basta sai” e “in mezzo ai guai” vendette sì e no qualche decina di copie. Me ne accreditano 20, ma io venti in giro non le ho viste mica».
Non basta sai, testo: «Perché tra noi/ qualche milione di anni luce/ tu sei in un mondo e io in un altro».
«Era semplicissimo, quasi elementare, di sicuro meno poetico di certe ballad che sui cuscinoni, tirando fuori la chitarra, cantavo nelle serate al Piper o al Titan, tra persone che cercavano abbandono e rilassatezza. Un pezzo di verità però c’era: a tratti, per molte ragioni, mi sono sentito molto solo».
Le ragioni?
«Tante e diverse. Prima di tutto l’educazione cattolica. La scuola la feci dalle suore, a Trinità dei Monti, feci il chierichetto e prima ancora venni al mondo con lo stesso gruppo sanguigno di mia madre, Rh negativo e appena nato ho avuto bisogno di una trasfusione. Il donatore fu un frate e si vede che era destino perché in famiglia, di sacerdoti, ne abbiamo tre».
In cosa consisteva l’educazione cattolica?
«In una severità del cielo, dei comandamenti, di una dottrina che sembrava indicarmi cosa avrei dovuto fare ed essere nella vita. La musica mi ha aiutato tanto, il resto l’ha fatto l’emarginazione. L’ho ascoltata, cantata, sollecitata. Le ho dato asilo».
Amici?
«Importantissimi. Lucio Dalla, a proposito di solitudine, fu una boccata d’aria. Mi sembrò subito simile e gemello. Se ne fregava dei moralismi, delle regole imposte, del giudizio degli altri».
La chiamava fratellino.
«A dì la verità, fratellino chiamava un po’ tutti. Alcuni mesi prima di morire mi invitò alla Tremiti per un concerto. Volevano trivellare un mare meraviglioso per un po’ di petrolio annacquato e Lucio reagì organizzando un concerto. Girammo per quattro giorni in barca, pescando ricci e mangiandoli con i pescatori locali. Lucio guardava un isolotto all’orizzonte: «Lo vedi?- Mi diceva. Lì sopra c’è un cimitero, vorrei essere seppellito lì».
Lei recitò con Fellini.
«Me lo fecero conoscere la sua segretaria, Lia Consalvo e il suo aiuto regista, Maurizio Mei. Io e Federico diventammo subito amici. Lo accompagnavo con il sidecar a Cinecittà, la sua seconda casa, dove c’era la sua corte dei miracoli e dove le donnine preparavano spremute d’arancia al maestro.
Mi incuriosiva la sua passione per le deformità, i mondi clowneschi, i soggetti speciali, i difetti fisici. Avendo ricevuto da subito la patente di malfunzionante, come fossi un difetto di fabbricazione, ho sempre amato e accarezzato l’handicap e ne ho sempre avuto rispetto profondo. Dietro l’handicap, magari, c’è Einstein».
Lei, come forse solo Vasco Rossi ha saputo fare, ha creato una comunità. I sorcini la accompagnano da sempre.
«Mi seguivano con quei motorini piccoli, alla fine di ogni concerto e pensai ai piccoli topi, ai sorci. Una volta a Bologna la polizia li vede bruciare un rosso e ne ferma 25. Torno indietro, vado dall’agente e improvviso un comizio: “Avete sbagliato- dico guardandoli ecumenico, da vero paraculo- dite che non lo farete più”. Alla fine le multe non vennero spiccate e andammo a mangiare tutti insieme. Su Vasco ho una storia, sa?».
Ce la dica.
«Mi chiamò a Zocca. Uno dei primi concerti della mia vita. Mi aspettavo un palazzetto e mi ritrovai nella villa comunale del paese con i miei amplificatori comprati con le cambiali da montare in fretta e furia. Avrei dovuto suonare ma si ruppero dopo un minuto. Allora improvvisai barzellette per un’ora. In un parco. Sotto le stelle. Con il pubblico in delirio. Alla fine Vasco disse: “È il cachet più meritato che abbia visto pagare in vita mia”».
Si è mai sentito cattivo?
«Cattivo no, severo sì. Con quelli che non mi hanno capito e con tutti quelli che mi avrebbero visto volentieri, su un palco, a fare comizi di politica. Non è che non volessi sporcarmi, ma la musica è un percorso, la politica un altro. Non ho mai confuso gli ambiti. Se devo fare un discorso politico o sociale, preferisco il pentagramma. Sa quanti cantanti ho visto passare con indifferenza dalla Festa dell’Unità a quella dell’amicizia senza battere un ciglio? Il cachet d’altra parte non ha colore. Da dove piove, piove».
Zero è stato il più conservatore tra i rivoluzionari?
«Un po’ conservatore, per una forma di preservazione, sono. Le contaminazioni spesso sono dolorose. Se conservi un pensiero, una logica o un’identità non ti devi vergognare di niente. Se nella marmellata entra il baco, si guasta. Come il computer. Non c’è differenza».
Rimpianti?
«Se hai permesso a un sentimento di appassire bisogna avere la consapevolezza di accettarlo. Ma il rimpianto ha sempre il proprio antidoto ed è comunque diverso dalla nostalgia. Sono simili e uno bussa alla porta dell’altro, ma io al rimpianto non apro, alla nostalgia sì. Me la sciroppo volentieri, è anche piacevole la nostalgia. È la carezza di un’assenza».
Ha nostalgia dei suoi vent’anni?
«Di quei vent’anni, dei miei vent’anni. Se oggi mi offrissero di avere vent’anni nel 2018 non li accetterei così volentieri».
Con l’amore i conti sono a posto?
«L’amore non è una banca e io comunque ho frequentato un solo sportello. Ho depositato i miei amori un po’ qui e un po' lì. Andavo e versavo, senza chiedere mai una lira indietro. Se parliamo d’amore è ingiusto chiedere indietro qualcosa. L’amore è una prova alla quale siamo sottoposti. L’unica vittoria possibile è farlo vivere a lungo e provare a contagiare gli altri».
Oggi ama più o meno di ieri?
«Amo con più libertà».
Renato Zero si vuole bene?
«Ce l’ho un po’ con me. Ho dato molto alla mia musica, ai miei trucchi, alle mie divagazioni e troppo poco a Renato Fiacchini, l’inventore di tutto questo, a ben guardare».
Bilanci?
«I bilanci hanno un sapore fiscale e mi sono sempre stati sul cazzo. Non voglio fare conti né confronti. Ma perché mi devo analizzare? Mica produco vino. Il vino sono io. Mi lascio invecchiare e domani sarò più buono».
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