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Massimo Onofri per “Avvenire”
Lo dico subito e con chiarezza: Niente di personale, l'ultimo libro di Roberto Cotroneo, si distingue decisamente, di molto innalzandosi, dalla grande maggioranza dei romanzi italiani di questi anni, di mediocrità quasi sempre giudiziosa, dovuti in gran parte agli effetti omologanti delle vittoriose scuole di scrittura, che hanno autorizzato prodotti - e sottolineo il senso industriale e merceologico del termine - confezionati assennatamente, senza clamorose cadute, ma anche senza slancio e idee, senza visioni del mondo, che non siano quelle già predisposte dal supermarket culturale internazionale.
roberto cotroneo marino sinibaldi
Niente di personale, infatti, è un romanzo massimalista, ambizioso, ma - ecco il primo dato - davvero all' altezza delle proprie ambizioni. Siamo a Roma nel 1984, quando il giovane protagonista - che potrebbe essere lo stesso Cotroneo, ma che non coincide esattamente con Cotroneo - , arriva alla redazione dell' Espresso. Viene da una città del Nord «dalle strade linde», ma ha una famiglia che ha radici calabresi. Una madre morta da qualche anno.
Un padre - «un medico affermato, autorevole, una casa agiata» - il quale, grazie a uno zio emigrato in America che non ha mai visto, può studiare ed emanciparsi dal lavoro di sarto. Due nonni: uno, quello materno, «fervente monarchico»; l'altro, che era stato «amico di Gaetano Bresci, l'anarchico che assassinò Umberto I a Monza». L'assunzione all'Espresso significa per il giovane intellettuale l'iniziazione a un mondo regolato da riti e liturgie d' appartenenza, in cui le gerarchie sono razionali, i valori saldi e indubitabili, gli individui riconosciuti nella loro identità e funzione, i rapporti inequivocabili.
roberto cotroneo firma le copie del suo libro
È il mondo di Fellini, che ti invita a pranzo da Cesarina e ti dà buoni consigli, di Moravia, Calvino, Eco, d' un sorprendente Andreotti: quello in cui gli scrittori hanno ancora autorevolezza e grande importanza, mentre i politici fanno politica, ma al minimo di clamore e, se possibile, di visibilità. Poi, a un certo punto, quel mondo sparisce: e tutto cambia. Che è successo?
Sappiamo che molta letteratura europea - grandissima - ha orientato un certo Novecento in direzione dell' elaborazione d' un lutto immenso. Proust, per dire, dentro la dialettica tra tempo perduto e tempo ritrovato, può essere letto in questo senso. Ma è stato lo Stefan Zweig incalzato dagli aguzzini nazisti, che più di ogni altro ha saputo celebrare il "mondo di ieri", a suggellare quell' operazione persino col suicidio.
ROBERTO COTRONEO - NIENTE DI PERSONALE
In Italia - a parte qualche epigonale tentativo finito in caricatura - non c' è stato nulla di simile, se si eccettua la straordinaria vicenda di Fausta Cialente che, nei suoi romanzi "levantini", ci ha affidato per sempre il defunto mondo coloniale italiano tra Alessandria d' Egitto e Il Cairo. Ecco: il romanzo di Cotroneo è anche tutto questo, nel mentre mette di fronte l'Italia di appena ieri col "deserto" del nostro oggi, in cui è anche la persona è morta in gloria della riproducibilità di massa. Il nostro oggi appunto: quando, al potere vero, silenzioso e discreto, s' è sostituita la sua mera "esibizione", e tutto è diventato "sceneggiatura".
La storia pubblica si intreccia continuamente, qui, a quella personale d'un giovane uomo separato dalla moglie che scopre per caso che anche la nuova fidanzata lo tradisce: e non voglio dire dei segreti di famiglia o delle tragedie con cui si dovrà confrontare. Mi limito a osservare che non c' è niente di personale perché, in fondo, tutto è personale. Chi dice io, in effetti, è l'ultima incarnazione di quel "personaggio uomo", così come Giacomo Debenedetti ce lo figurò in un saggio memorabile, che agisce per delega di tutti noi.
Ci sarebbe molto da dire: mi concentro, allora, su un solo ma importantissimo aspetto.
Qualche lettore si ricorderà come si esprimeva il vecchio Simenon, protagonista del precedente romanzo di Cotroneo, Betty (2013), alle prese con una donna, che aveva fatto di tutto per somigliare a un suo personaggio: «Io voglio verità, non storie. Le storie le conosco, le verità le ho perse». Una delle differenze cruciali tra il mondo di ieri e quell'oggi fantasmatico che detta qui i tempi della scrittura è, infatti, proprio questa: «Non era accattivante mettere in piazza le proprie storie». E ancora: «In quel tempo c'era passato e passato, memoria e memoria, sentimenti e sentimenti». Ma oggi?
Cotroneo non ha dubbi: «È solo nella società dello spettacolo, ma soprattutto della vita che si è fatta spettacolo, che ogni storia è una storia, talvolta una grande storia, che ogni passato è un flashback e va sminuzzato, raccontato, elaborato, che della vita non si butta niente, perché la vita è vita». L'obbligo a raccontarsi per decretare la propria esistenza in un mondo sempre più virtuale, insomma, diventa per lo scrittore il dato più eclatante di quello che un filosofo tedesco del secolo scorso definì «il tempo della povertà».
franca leosini roberto cotroneo
Nessuno, più del vecchio Simenon di Betty, aveva saputo con esattezza feroce, con evidenza irredimibile, «quanto la letteratura faccia male». Il libro di Cotroneo è infatti anche questo: la decostruzione critica del mito per antonomasia delle scuole di scrittura: che tutto giustificano, appunto, in nome d' una storia da narrare. Con un "finale di partita" sorprendente e metanarrativo, in cui sono convocati Borges e Cortázar, quasi una requisitoria tra le aspettative (i risentimenti) di chi legge e l' inadeguatezza (le paure) di chi oggi scrive, da cui si potrebbe evincere un trattatello sui diritti dei lettori e i doveri degli scrittori all' altezza del nostro oggi.
roberto cotroneo andrea vianello
Il Novecento è iniziato - Debenedetti docet - con scrittori che narravano perché non sapevano spiegare. Cotroneo narra - è condannato dai tempi a narrare -, ma perché vuole spiegare. Il confronto stringente è quello con la vita e le sue mistificanti rappresentazioni: ma la paura - terminale, postrema - è quella di scrivere sulla sabbia.
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