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Francesco Merlo per "la Repubblica"
E chissà che adesso, come il mare che durante il lockdown si è ripopolato di pesci, anche il Festival di Sanremo, svuotato del pubblico dell' Ariston, non si riempia di autenticità. È il paradosso della vita che torna proprio quando viene a mancare la vita. Diciamo, infatti, la verità: non era mai stato un granché questo pubblico del teatro Ariston, 1200 posti, con la nomenklatura della Rai schierata nelle prime file, qualche vip e moltissimi semivip, e tutti quegli assessori, presidenti, direttori, almeno trecento posti divisi tra prefettura, procura, questura, e poi il Tribunale di Imperia, la Provincia, due abbonamenti a testa per ogni consigliere comunale e i biglietti omaggio «destinati a soddisfare - dicevano i protocolli del cerimoniale Rai - le esigenze istituzionali».
Insomma è sempre stato un pubblico di figuranti plaudenti anche se non scritturati, ciascuno con il proprio biglietto nominale, con la propria poltroncina rossa, non importa se pagata o in omaggio perché sempre e comunque offerta. E infatti non c' era bisogno del segnale luminoso e neppure dell' incitamento dell' Amadeus di turno, «e ora un bell' applauso», per far parlare, tutte insieme, quelle mani, che si potevano anche tendere, agitare e unire a catena l' una con l' altra.
È il pubblico che lo scorso anno si alzò in piedi battendo il tempo e poi intonando in coro «se cade il mondo / allora ci spostiamo / se cade il mondo / sarà perché ti amo». La scena, rivista adesso, è ancora più goffa e si capisce bene perché Umberto Eco chiamasse "Bonga" questo mondo di plaudenti.
Sanremo insomma non ha perduto il pubblico pop dei grandi concerti, che riempie gli stadi per Vasco Rossi, per De Gregori, e anche per Gianni Morandi e per Al Bano e Romina, dove tutti sono protagonisti di una musica che è colonna sonora dell' Italia appunto popolare, e ciascuno applaude il proprio ricordo, rievoca con la forza delle mani il pezzetto di una storia comune. Ecco perché questo festival a porte chiuse potrebbe ora diventare più autentico, perché sarà al totale servizio del suo pubblico più vero, quello pop della tv, senza la mediazione-patacca del suo pubblico kitsch, quello del teatro Ariston.
Di sicuro piacerebbe a Umberto Eco che immaginò i Bonga come un popolo primitivo di derivazione appunto televisiva che, a poco a poco, aveva iniziato ad applaudire sempre, anche fuori della televisione, «persino ai funerali per non sentirsi ombre tra ombre». Rimane da capire perché il ministro Franceschini, che ha bocciato l' idea di scritturare il pubblico e di riempire l'Ariston di figuranti, sostituti, ectoplasmi, finti spettatori plaudenti, come sono già ad Amici, a X Factor e al Maurizio Costanzo Show, abbia invece promosso, nella politica che è malata come Sanremo, i volenterosi che Giuseppe Conte ha raccolto in Parlamento. Se ci pensate bene anche quei costruttori sono come i Bonga di Umberto Eco, anche loro pronti ad applaudire la scena, qualsiasi scena, pronti a saltare sul palco dei vincitori.
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