DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Valerio Cappelli per corriere.it - Estratti
Accade tutto nelle 24 ore prima di rientrare in California. Sophie è una brava ragazza americana (la sorprendente Elena Kampouris), che durante una vacanza a Palermo incontra Giulio (Saul Nanni) e i suoi amici siciliani. Una rapina armata, e scopre l’«asprezza selvaggia della vita», che le era ignota. Gabriele Muccino affronta un thriller. Fino alla fine, dal 31 nelle sale, racconta la scelta di Sophie.
Muccino, sono quasi 30 anni di carriera.
«Io volevo fare il veterinario ma allo stesso tempo mi nutrivo di film nel cineclub sotto casa. Nell’adolescenza ero un disadattato, ho sofferto molto per non riuscire a essere ascoltato, non trovavo il modo di stare al mondo, vivevo in una calotta in cui lo sguardo degli altri mi diceva che non ce l’avrei fatta».
Quando cambiò la situazione?
«A 18 anni feci una recita scolastica e mi svegliai come i Blues Brothers quando vedono la luce: volevo fare cinema, comunicare attraverso gli attori. Fu il veicolo per liberarmi dell’80 percento della balbuzie, legata alla scarsa fiducia e stima che avevo di me stesso. Ma la svolta avvenne più tardi, col successo di L’ultimo bacio, anche se permanevano le critiche dell’establishment del cinema: mi dissero che ero un bluff, mi paragonarono addirittura a Castellano & Pipolo.
Ma anche a casa, c’era chi si identificava coi miei personaggi e chi sosteneva che non esistessero nella realtà. Fu una sorta di tsunami. Avevo poco più di 30 anni, ero spaesato, disorientato, non avevo il libretto di istruzioni di come imparare a gestire tutto questo».
Nei suoi primi film recitavano Veronica Gentili e suo fratello Silvio.
«Veronica, che oggi è un nome come giornalista in tv, era una ragazza di 15 anni che non sapeva cosa sarebbe stata nella vita, sai quando ci si mette in tasca tante verità pur non avendole; quanto a Silvio, sono 17 anni che dico la stessa cosa, ci ho provato tante volte a riaprire con lui e non è stato possibile».
Gli applausi del pubblico. Ma ha vinto appena due David, e uno dagli spettatori.
«La diffidenza dell’establishment era così forte che sono uscito dalla giuria dei David. Per i miei film ricordo solo candidature come migliore canzone. C’era qualcosa che dava fastidio. Quando andai in America tutti scommettevano sulla mia sconfitta, perché tutti avevano fallito. Invece La ricerca della felicità con Will Smith incassò 300 milioni di dollari e diventai un regista internazionale, amato, riconosciuto, inseguito dai grandi produttori».
Oggi in che fase è?
«Sono molto più sereno, tanto da osare in questo film, avventurandomi in un territorio ignoto, pur mantenendo il mio stile e la disfunzione dei personaggi, impreparati alla vita, con la loro incompiutezza, fragilità, voglia di vivere. Lo spettatore sarà con loro».
(…)
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