DAGOREPORT - BLACKSTONE, KKR, BLACKROCK E ALTRI FONDI D’INVESTIMENTO TEMONO CHE IL SECONDO MANDATO…
Valerio Cappelli per il “Corriere della Sera” - Estratti
«Far ridere quel pubblico lì è stata una scuola dura ma interessante», dice Claudio Bisio.
«Quanti vaffa mi sono preso non avete nemmeno l’idea», racconta Massimo Boldi nel bel documentario di Marco Spagnoli C’era una volta il Derby Club , atteso il 20 al Bif&st di Bari.
È la storia del locale di Milano in via Monterosa, la Scala del cabaret. Da lì, per 26 anni, dal 1959 al 1985, sono passati tutti. Una certa comicità del Nord, quel modo un po’ cinico di ridere sulla follia, quella poesia che nasce dalla tristezza. «Tutto nasce su quel palco», dice Elio (delle Storie Tese) voce narrante del filmato.
Per un tuffo nella comicità surreale, rivolgersi a Cochi e Renato che, in giacca e cravatta, la chitarra al collo, dicevano: «Il mare l’abbiamo avuto anche noi a Milano, via Torino tutto uno scoglio. Poi è rimasto l’Idroscalo che c’è ancora la gente abbronzata adesso».
Un pubblico trasversale. Industriali e impiegati in cerca d’avventure, papponi annoiati, commessi viaggiatori, intellettuali. Avvistati negli anni Ugo Tognazzi, Nino Manfredi, Gianni Agnelli, Lina Wertmuller, Bettino Craxi cliente fisso.
Ma anche malavitosi come Francis Turatello e Renato Vallanzasca che scappò dalla polizia da una finestra del Derby. Il «caso» Tortora entrò quando il re delle calunnie Gianni Melluso disse che il presentatore tv in quel piccolo locale smerciava droga.
La musica (da Gaber in giù) era centrale. Enzo Jannacci cominciò con l’urlo del cojote. Era il segnale che nella città delle industrie e della plastica, della nebbia e dello smog, dei palazzoni delle periferie dove la gente andava ad abitare in cerca di lavoro e di danee , i soldi, era iniziato qualcosa di nuovo. Il locale era stato ricavato dalla cantina del ristorante di famiglia di Giovanni Bongiovanni, detto «Il Bongio». Andava in giro con una vestaglia e un drago stampato sulle spalle. Lo chiamò Il Derby perché non era lontano dall’Ippodromo. Non c’era ancora uno spazio di quel tipo, e non c’è più nemmeno quel mondo. Apriva alle 11 di sera e si faceva l’alba.
Gino e Michele parlano di comicità letteraria, gergale, fuori dagli schemi ma attaccata alla tradizione; trasgressione e critica del conformismo che nel grigiore ipocrita del politically correct non si finiscono di rimpiangere. Si pescava al confine tra il legale e «l’oscuro», i comici, amici e rivali, rubavano battute perfide ai criminali che andavano al Derby per darsi arie.
A esibirsi c’era anche il figlio della guardarobiera (e nipote dei proprietari) Diego Abatantuono, che con Teo Teocoli è l’unico a non lasciare un ricordo. La tv, da Canzonissima alle reti di Berlusconi, saccheggiò i comici nordici; inventarono un mondo sotterraneo sotto lo studio del varietà della Rai, da cui Massimo Boldi creò il tormentone «Ciao bella gioia».
Raffaella Carrà non capiva il suo umorismo e cercò di farlo fuori; anche Cochi e Renato erano tenuti d’occhio, infatti alla Rai avevano un contratto settimanale.
Negli anni al Derby si avvicendarono Villaggio, I Gatti di vicolo Miracoli, Faletti, Beruschi, Aldo e Giovanni ancora senza Giacomo
(...) Paolo Rossi: «Per sopravvivere dovevi adattarti al pubblico; lui entrò dopo il successo di Teocoli e Boldi su Cipollino, «e 400 persone in sala si alzarono e se ne andarono. Passato quello, dopo, cosa vuoi che ti succeda di brutto?». Così Paolo Rossi improvvisava da quello che gli succedeva nella vita; una volta un poliziotto dopo averlo fermato a un posto di blocco gli chiese la patente e vedendo nome e cognome, pensando al goleador, gli disse: ma sei il fratello di… Era la Milano da bere e da sniffare; per la polvere bianca dovette chiudere i battenti. Il locale chiuse con una retata della polizia. Come la scena di un film. Era finita un’epoca.
COCHI E RENATOcochi e renatoALDO GIOVANNI E GIACOMOcochi e renato
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