DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Sara Scarafia per “la Repubblica” - Estratti
«Conosco bene quel vuoto. So quanto sia faticoso resistere quando non c’è più amore che ti parli, quando non c’è più bellezza. Ma si può rinascere, come bambini che chiedono di essere rialfabetizzati alla meraviglia del mondo».
Lo scrittore e poeta Daniele Mencarelli ha trasformato il disagio mentale in letteratura. Con il suo romanzo Tutto chiede salvezza (Mondadori), diventato una serie Netflix amatissima dai ragazzi, ha affrontato la sua esperienza di ventenne in un reparto psichiatrico dopo un tso. Ieri ha letto l’intervista confessione dell’autore Premio Strega Paolo Cognetti, che a Repubblica ha raccontato il suo ricovero per una grave depressione, con emozione e vicinanza.
Mencarelli, cosa ha provato?
«Ho conosciuto Paolo a Francoforte ed è stato un momento molto piacevole.
Mi è sembrato un ragazzo vivo, con una luce malinconica negli occhi che a me capita di ritrovare spesso. La prima cosa che ho pensato, e che mi sento di dirgli, è che gli sono vicino perché conosco quell’abisso che rende l’esistenza tabula rasa. Io continuo a fare i conti con queste oscillazioni, dal buio all’euforia, ma proprio per esperienza gli dico che da questi momenti si può rinascere».
Che ricordo ha del suo tso?
«Avevo vent’anni. Il ricovero è durato sette giorni. L’euforia, nel mio caso acuita dalle droghe e dall’alcol, poi la caduta, un muro nero. Ho cercato di raccontare quell’esperienza in Tutto chiede salvezza : le persone con le quali mi sono ritrovato a condividere la stanza sono state per me molto importanti. Quello che dice Paolo a Repubblica è vero: la malattia mentale va condivisa. Il tso è un luogo: se ti lasci guidare, da lì puoi muovere il primo passo per il superamento della fase acuta».
Cognetti dice che le cure le ha subite.
«So cosa prova. C’è un momento, all’inizio, nel quale la terapia sembra sedare, addormentare, ogni afflato, anche artistico. Ma nella mia esperienza, l’alleanza tra lo psichiatra, l’analista e i farmaci è stata fondamentale per permettermi di essere qui oggi».
Lo scrittore dice: «la popolarità è spietata». Il successo può essere un detonatore della malattia?
«La voragine, l’abisso, può spalancarsi davanti a noi perché non otteniamo quello che desideriamo o, al contrario, perché lo abbiamo raggiunto e non riusciamo a reggerlo: il doversi mantenere dentro a certi standard, il mondo che continua a chiederci di fare sempre meglio. Non è facile».
Crede che Cognetti sia stato coraggioso a raccontare e condividere la sua storia?
«Io credo che sia un atto di grande civiltà, partendo da quella visione che questo Paese sta via via dimenticando, quella di un grande maestro come Franco Basaglia che ci ha insegnato che il disturbo psichiatrico non si colloca al di fuori della natura umana, ne è parte».
Ma allora perché ci vergogniamo ancora così tanto di parlarne?
«Perché abbiamo paura di fare i conti con il vuoto che è dentro di noi, dentro tutti noi. Parlarne per molti è inaccettabile: non vogliono guardarci dentro, non vogliono sapere. Serve spezzare questa catena ma al contrario: dovremmo imparare dai giovani che hanno molto meno pudore dei loro genitori, dei loro nonni, a raccontare la fragilità».
Eppure la letteratura, la poesia, sono attraversate dal disagio psichico.
«Sfatiamo un mito. Come diceva Pasolini, si è scrittori o poeti non grazie alla malattia ma nonostante la malattia. Quando si abbatte svuota di significato l’intera esistenza, anche la scrittura. Ma può diventare una magnifica premessa per ritornare al mondo. È un’esperienza che ho vissuto e che auguro a Paolo di vivere».
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