DAGOREPORT - LA MAGGIORANZA VIAGGIA COSÌ “COMPATTA” (MELONI DIXIT) CHE È FINITA SU UN BINARIO…
Antonio Gnoli per la Repubblica
Nel momento in cui sto per congedarmi dalla sua casa romana le chiedo se posso farle una foto. Mi guarda con la circospezione di chi sembra appena scesa da un' astronave; poi con gentilezza mi dice di attendere. Va in un' altra stanza e torna con un paio di occhiali scuri. Le chiedo che bisogno aveva di metterli. Mi dice che non è un problema di sicurezza o di estetica. Semplicemente gli occhiali segnano il confine tra il fuori e il dentro. «Il buio è una condizione che amo. Contrasta con il chiaro del mio corpo. Fin da bambina prediligevo il nero».
Erano parecchi anni che non incrociavo Patty Pravo, non la sua voce - che è stata quasi sempre presente - ma la sua figura levigata, tenue, minuta, i suoi gesti che in scena accennano senza interferire, senza promuovere, in una specie di teatralità minimalista. Siede su un divano sotto un grande Tano Festa che la ritrae con un cappellone che sembra quello del lui dei Coniugi Arnolfini e che fa molto anni Settanta. Periodo pazzesco, sottolinea. La guardo e non riesco a trattenere il pensiero che sia una delle pochissime artiste che può vivere di rendita.
Ora è appena uscito un suo nuovo cd:
«È un pezzo della mia storia », dice, «ma la mia storia ha molto altro dentro».
Tra tutti i grandi interpreti lei mi sembra la meno ossessionata dalla musica.
«Le attribuisco lo stesso valore che do al silenzio. Forse hanno bisogno l' uno dell' altra».
Cosa apprezza del silenzio?
«Aiuta ad autosospendersi dal mondo. Un esercizio di purificazione. Mi accade ogni tanto di desiderare il silenzio sotto qualunque forma si manifesti: un viaggio da sola, una sosta in un luogo sconosciuto o, magari, essere semplicemente davanti a un uomo che ti guarda e tace. Questo mi fa tornare alla mente un episodio ».
Quale?
«Ormai adolescente a Venezia, dove sono nata e dove ho vissuto, incrociai una coppia piuttosto anziana. Procedeva lentamente. Non sapevo chi fosse. Lei guardandomi sorrise. Lui sembrava un Jimi Hendrix invecchiato: i capelli erano una torre scomposta di riccioli, la barba rada e il pizzo gli davano un' aria mefistofelica. Lui era Ezra Pound e lei Olga Rudge, la compagna dell' uomo che non parlava mai. Mangiammo un gelato. Ci rivedemmo un' altra volta soltanto».
Cosa accadde?
«Nulla o almeno nulla di apparentemente significativo. Quella coppia che viveva alle Zattere e scendeva dall' imbarcadero sembrava fuori dal tempo. Lui non parlò mai. Seppi in seguito che era stato un grande poeta. Ma allora avevo quattordici anni ed ero solo Nicoletta Strambelli. Conservai quel ricordo come una preziosa gemma veneziana».
Lasciò Venezia quando?
« A diciassette anni andai a Londra. Chiesi il permesso a mia nonna, con la quale vivevo. Ho avuto un rapporto fantastico con lei. Capiva perfettamente le mie esigenze. Un giorno le raccontai che avevo fatto l' amore con un ragazzo. Si preoccupò solo che non fossi restata incinta. Le dissi che a Londra avrei imparato l' inglese. Partii animata dalle migliori intenzioni scolastiche».
E invece?
«Mi trovai mescolata a un gruppo di persone che praticava musica, gente attratta dai locali che allora cominciavano a esplodere con le note dei Beatles e i concerti dei Moody Blues e degli Yardbirds. Fu elettrizzante. Venivo da otto anni di conservatorio. Mi ripromettevo una carriera da pianista o, meglio ancora, di direttore d' orchestra. Mi ritrovai nello Nel ballo e nello sballo. Qualcuno a Londra mi parlò del Piper, il locale che avevano aperto a Roma, decisi che valeva la pena andarci. Con un maggiolino lasciammo in tre l' Inghilterra. Dopo una settimana arrivammo a Roma».
La sua intenzione era di cantare?
«Non avevo idea di che cosa avrei fatto. Conoscevo la musica, sapevo ballare e anche cantare. Ma nessuno era ad attendermi per un provino»
Dunque?
«La fortuna volle che al Piper trovassi Arbore e Boncompagni che cercavano spunti per la loro trasmissione Fui notata e raccontai dei miei trascorsi musicali. Mi presentarono al proprietario del Piper, Alberigo Crocetta, il quale volle sentire come cantavo.
Non avevo tecnica, né esperienza. Restò colpito dal timbro della voce e dall' intonazione. La prima canzone che registrai fu la cover di cantata da Sonny & Cher. La traduzione fu di Gianni Boncompagni e la intitolò Imprevedibilmente divenne subito un grande successo. Eravamo alla fine del 1966».
Che Roma frequentava?
« La città di eterno aveva la frenesia notturna. Il confine con l' alba si spostava ogni notte sempre un po' più in là. Ero giovane e bella, con la sensazione che ogni cosa era nelle mie mani e potevo disporne. Frequentavo gli artisti. Tano Festa, Franco Angeli e Mario Schifano. Nel 1966 Mario viveva in un loft di Campo de' Fiori. Era una casa atelier, piena di tele accatastate. E spesso colma di gente strafatta. Fu lì che una sera si presentarono i Rolling Stones, che nessuno ancora conosceva, almeno in Italia».
Che ricordo ne ha?
«Eravamo tutti su di giri. In quel momento non mi resi certo conto che avrebbero rivoluzionato il modo di fare spettacolo rock. Roma se ne fregava dei miti a loro insaputa. Vivevamo sotto il segno del caso e dell' improvvisazione. Pensi che una notte uscita dal Piper un amico mi disse "Nico", perché allora mi chiamavano ancora Nico, "vieni che c' è un tale nella mia macchina che vuole vedere Roma di notte". Chi è? Chiesi. Vieni, è una sorpresa».
Chi era?
«Jimi Hendrix venuto a Roma per un paio di concerti. Salii sulla Cinquecento e vidi quest' uomo avvolto da una sciarpa di piume. Ci salutammo. Sorrise. Salii a fatica nel dietro della macchina. Lui si voltò. Sembrava un uccello dalle grandi ali. Avvertivo il fumo stordente di una canna. Fu a quel punto che Marozzi, il mio amico, partì sgommando verso la notte».
Dove andaste?
«Non c' era una meta. In quei giorni cercavano il bandito Vallanzasca. Ci fermarono a un posto di blocco. Nessuno di noi tre somigliava al "bel René". E fu una fortuna».
Dopo il successo di " Ragazzo triste" come cambiò la sua vita?
«Non credo che cambiò di molto. Nel frattempo ero diventata "la ragazza del Piper". Nonostante la visibilità improvvisa, con i miei desideri e trasgressioni ero sempre io. Mi innamorai di un musicista. Fu la prima volta che mi sentii davvero coinvolta. Era Gordon Faggetter, batterista dei Cyan Three. Realizzai un altro paio di cover che ebbero successo: Qui e là e Se perdo te. Partecipai a qualche programma televisivo e poi arrivò, come un colpo di tuono, La bambola. Fu un botto pazzesco».
È vero che all' inizio detestava quel brano?
«Lo trovavo pieno di stereotipi. Alla fine mi convinsi a cantarlo perché il messaggio vero parlava di una donna che si ribella alla condizione di essere solo un bell' oggetto. Il pubblico femminile ha molto amato questa canzone che, tra l' altro, ha venduto nel mondo milioni di dischi».
Era il 1968 quando la cantò la prima volta?
«Sì, un anno speciale».
Per molti cantanti cominciò un periodo complicato, segnato da processi politici e accuse varie.
«Ma non subito, l' aria divenne irrespirabile qualche anno dopo. Per fortuna io avevo già lasciato l' Italia per la California. Anche se qualcuno tra i giornalisti dotati di meno fantasia non mi aveva risparmiato l' accusa di fare canzoni destrorse. Del resto qualcosa di analogo era accaduto con Lucio Battisti».
Conosceva bene Battisti?
«Certo, il ragazzo più spontaneo che abbia mai incontrato. Un giorno all' aeroporto, sentii uno urlare "A Nicole', ma quanto l' hai pagato quel cappotto?". Era Lucio che indossava esattamente lo stesso soprabito. Era fatto così. E se non gli stavi bene ti sfanculava con la rapidità di un cobra. La sua musica è stata geniale e pop come nessun' altra in Italia».
A proposito di pop lei ha fatto molte apparizioni a Sanremo. Non strideva la sua immagine anarchica con quella convenzionale del Festival?
«Effettivamente sono stati parecchi i Sanremo cui ho partecipato. Cominciai nel 1970 cantando in coppia con Little Tony La spada nel cuore. Non so cosa dirle. Amo frequentare i luoghi più diversi senza rinunciare alla mia immagine. Oltretutto, se dieci milioni di persone ti ascoltano, che fai gli dici andate a cagare?».
Luigi Tenco è stato un po' il confine tra questi due volti di Sanremo. C' è una foto che la ritrae con lui e Lucio Dalla. Ne ha un ricordo?
«Dalla lo conobbi che avevo 14 anni. A Venezia. Un artista generosissimo. Diventammo amici. Una sera a Roma, credo fosse luglio, faceva un caldo spaventoso. Uscimmo dall' albergo io in shorts e lui in mutande e ciabatte. Una visione orrenda anche se divertente. Era l' uomo più peloso che avessi mai visto. La gente ci guardava come fossimo due appena usciti da una seduta psichiatrica. Per un momento pensai che coppia saremmo stati: la bella e la bestia».
Quanto a Tenco?
« Di lui è stato detto tutto. Bisognerebbe tacere. Era fragile e affascinante. Ed è giusto che molti ancora oggi lo ricordino con ammirazione ».
Perché decise di lasciare l' Italia?
« Troppo stress. E poi era finita la storia con Roger. Problemi con la mia casa discografica e soprattutto il successo di Pensiero stupendo invece di moltiplicare le energie me le ridusse ai minimi termini. Qualcuno insinuò che era colpa della droga».
Era vero?
«Per un decennio ci ho dato dentro con le sostanze: soprattutto fumo, anfetamine, acidi. Ma non era quello che mi stava demotivando. Decisi di staccare. Troppa tensione, troppa visibilità. Volai in California: a San Francisco. Non era più la città degli hippie, ma conservava un grande senso di libertà. Avevo deciso di sparire per un po' e lì, tranne alcuni amici musicisti, non mi conosceva nessuno. E nessuno si interessava a me».
Le capitò di incrociare o frequentare Ferlinghetti?
« Mai. Sapevo che aveva una libreria piuttosto famosa nel centro di San Francisco. E che era uno degli ultimi esponenti della Beat Generation. Peccato. Ma in quel periodo avevo occhi solo per Rimbaud. Ero stregata da quel giovane che di punto in bianco lascia tutto e se ne va in Africa a fare il mercante d' armi. Mi piacciono le vite degli scrittori e degli artisti che alle fottute lingue dei critici oppongono il decoroso silenzio».
Però la sua vita è stata abbastanza rumorosa.
«Forse per contrasto a questo rumore ogni tanto mi rifugio nel silenzio».
Una vita anche costellata da tanti amori.
«Non mi sono mai tirata indietro».
Cinque matrimoni, ho letto.
«Mariti, amanti e qualche amico vero. Un amico che mi manca è Sergio Bardotti».
Scrisse per lei "Se perdo te".
«È stato un grande: nella musica e nell' amicizia. Quando abitavo al Pantheon capitava che la notte andassimo a sederci sugli scalini della fontana. Restavamo a volte fino all' alba. Certe mattine intorno alle cinque vedevamo passare Giulio Andreotti. Era solo e credo che andasse in chiesa, prima di recarsi a lavoro.
Sostava un attimo davanti a noi e ci chiedeva come state. E noi, sorridendo: mai stati meglio, presidente. Era quella Roma, dove la sera tardi incontravi Fellini che tornava da una cena: "Ti devi far crescere le tette", mi diceva. Era quella Roma di cui si è persa traccia. Troppo cambiata, troppo irriconoscibile. Così poco cinicamente confidenziale».
Cosa cambierebbe oggi nella sua vita?
« Mi fa venire in mente La cambio io la vita che, una mia canzone ma anche il titolo del libro autobiografico. Non so cosa cambierei. Perché quando il mutamento arriva io sono già un passo oltre. Ho girato il mondo. A volte senza conoscere nulla: un albergo, un concerto, un pasto, una notte e poi via.
A volte emozionandomi per l' irripetibilità di certi luoghi: i deserti dell' Africa e dell' Asia, i volti di certe popolazioni, la bellezza discreta di alcuni villaggi. La concezione del tempo e dello spazio che non è la stessa ovunque. Lontana da tutto ma vicina al mio cuore. Cambiare ma senza la retorica del cambiare. Lo so è difficile. E poi non mi piace guardarmi indietro. Mi piace pensare che ogni storia è la mia storia».
PATTY PRAVO COVERpatty pravo e loredana berte photo andrea arrigapatty pravo e loredana berte in sala provepatty pravoPATTY PRAVOpatty pravo stryx raidue
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