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Maurizio Crosetti per "la Repubblica"
Se il calcio all´italiana non esiste quasi più, gli italiani del calcio ne rappresentano ancora, e ovunque, l´anima più tenace. Gli allenatori soprattutto. Il caso del Chelsea è clamoroso: da quindici anni l´Italia della tattica riempie di segni la lavagna nello spogliatoio londinese. Prima con Vialli e ora con Di Matteo, passando per Ranieri e Ancelotti e non trascurando Zola, una specie di tecnico in pectore anche se con i blues si limitò soltanto a giocare, e forse neppure Gullit che dalle nostre parti formò carriera, struttura professionale e convinzioni. Stamford Bridge è una nostra provincia, e l´annessione nel giorno del trionfo in Baviera non è un modo per approfittarne ma per ribadire. Siamo, insomma, un po´ campioni d´Europa anche noi.
Cominciò Vialli, che non era un italianista, prima da centravanti (1996) e poi da allenatore-giocatore: a Londra vinse una FA Cup, una Coppa delle Coppe e altre cose non trascurabili, fino al 2000. Insieme a lui, Gianfranco Zola diventò "the magic box", restando al Chelsea fino al 2003: quanto basta per avviare un imprinting, e Zola faceva divertire, era un fantasista, mica uno stopper.
Con il buon Claudio Ranieri qualcosa è cambiato. Il suo contributo dal 2000 al 2004 è stato programmatico. Fu lui a porre le basi del Chelsea che si è arrampicato fino a Monaco, lui che richiamò Terry e pretese Lampard, lui che impostò una squadra bella robusta dietro, ma agile e spietata davanti: 199 partite e 107 vittorie non sono la carta d´identità di un catenacciaro. E allora, dove comincia il Chelsea più azzurro, nel senso di Italia, che blu?
Neppure Carletto Ancelotti può essere considerato un reperto archeologico del paleo-contropiede. L´esatto contrario. Si affermò centrocampista nella Roma totale di Liedhom, vinse tutto con il Milan "totalissimo" di Sacchi, poi da allenatore ha un po´ mutuato vari contributi, la sua Juve non era proprio l´Olanda degli anni Settanta ma neppure una banda di barricaderi, il suo Milan assomigliava di più ai dettami del maestro Arrigo.
Al Chelsea, ecco il suo ibrido di successo: Premier League (mai nessun allenatore italiano c´era riuscito) e FA Cup, un "double" da sogno anche se Abramovich voleva solo la Champions, ossessione e chimera, follia economica (un miliardo di euro spesi in otto anni) e crudele belva assetata di sangue: il mostro, rincorrendo un trionfo che pareva maledetto e irraggiungibile, ha divorato gente come Mourinho, Scolari, Hiddink, non è bastato il solido progetto a salvare Ancelotti. Poi c´è cascato pure il fenomeno teorico Villas-Boas. E l´Italia sembrava quasi sfuggita dal Dna del Chelsea.
Finché non è arrivato Roberto Di Matteo, il più italianista di tutti, il più cinico e realista, il più catenacciaro. Ma così, lui la Champions se l´è presa e adesso, sorpresa, potrebbe anche restare. «Robbie ha fatto un lavoro favoloso ed è un serio candidato alla nostra panchina per l´anno prossimo», dice il presidente Bruce Buck, e nessuno può immaginare che non abbia prima scambiato due parole con Roman Abramovich.
All´oligarca la carne italiana piace, la compra sempre e poi la spolpa, ma fino a sabato era sempre rimasto con un ossicino in mano. Adesso no, adesso c´è Robbie che vince con ottima sorte, coraggio, senso pratico ma non per caso. Se poi il padrone russo vorrà comunque prendersi Capello, il senso dell´Italia per il Chelsea non cambierà .
Gianluca Vialli
Carlo Ancelotti
Roberto di matteo
Claudio Ranieri foto GMT
CAPELLO
ROMAN ABRAMOVICH
chelsea
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