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PICCA USA LA PENNA COME UNA PISTOLA E SCRIVE IL PIÙ BOMBASTICO E INDIMENTICABILE LIBRO DEGLI ULTIMI ANNI - EMANUELE TREVI: “BISOGNA ABBANDONARSI SENZA OPPORRE RESISTENZA ALL’INTENSITÀ POETICA, AL REALISMO SPIRITATO, ALL’EBBREZZA NOSTALGICA DI QUESTO ‘’ARSENALE DI ROMA DISTRUTTA’’. TANTO MEGLIO SE SI SA POCO O NULLA DI ROMA, QUELLA “FEMMINA DEL MONDO INFAME”..."

AURELIO PICCA

Emanuele Trevi per il Corriere della Sera

 

Bisogna abbandonarsi senza opporre resistenza all’intensità poetica, al realismo spiritato, all’ebbrezza nostalgica di questo Arsenale di Roma distrutta (Einaudi Stile libero). Tanto meglio se di Roma si sa poco o nulla, e i nomi delle strade, delle piazze, dei vecchi locali notturni evocati nell’elegia di Aurelio Picca non corrispondono a nessun ricordo del lettore, a nessuna esperienza condivisa.

 

Come i quadri di Scipione, come le melodie di Califano, i brevi capitoli di Picca corrono sghembi e imprevedibili verso un assoluto che è al di là di ogni colore locale, di ogni scrupolo di verosimiglianza, di ogni rassicurante sociologia. La Roma di Picca, insomma, possiede in tutto e per tutto la consistenza dell’immaginario. Non è certo un caso se, in molte occasioni, lo scrittore ci ricorda la natura androgina della città, che «è stata sempre una femmina un po’ maschio. Femminona o meretrice o transessuale». L’ermafroditismo è il segno supremo della totalità, trasforma un luogo in un sogno rivelatore e in un destino.

AURELIO PICCA

 

Per rendere conto di questo animale mitologico, Picca inventa un personaggio per metà autobiografico e per metà fiabesco, un Pollicino erotico che disperde allegramente le sue briciole nella foresta della notte, e se ritrova la strada di casa, è solo perché la città è una mamma indulgente, che protegge i suoi bambini viziati ed è fiera anche della loro ingratitudine.

 

La memoria di questo protagonista risale volentieri all’infanzia, accecandosi alla luce dei ricordi indelebili, o si sofferma sulle stagioni di una gioventù perduta, trascorsa in una caccia interminabile alla felicità, tra le scorribande con gli amici e amori d’ogni tipo. Da quando ha coscienza di sé, il narratore è affascinato da oggetti del desiderio che non sono mai pienamente comprensibili, maschere di un’energia primordiale che pulsa nel suo ritmo eterno di generazione e distruzione.

 

BENVENUTI MONZON

Ecco le «signoracce» di via Merulana, negli anni Sessanta, «con le unghie rosse smangiucchiate, la tinta fatta in cucina, il rossetto sbavato». Sono presenze arcane, emerse da un oscuro calderone sotterraneo in perenne ebollizione, da una notte dei tempi dove l’infinita dolcezza e l’indomabile violenza della vita sono ancora inestricabilmente confuse, perché nessuna civiltà è intervenuta a distinguerle e separarle.

 

In tutti gli aspetti di Roma, Picca cerca questa originaria confusione delle energie e dei valori, delle forze della vita e di quelle della morte. La particolare torsione espressionista che fin dagli esordi caratterizza la sua prosa si rivela uno strumento particolarmente adeguato a questa archeologia fantastica e pulsionale. Come se fosse l’ultimo menestrello di un regno perduto per sempre, Picca canta le donne e gli eroi che hanno modellato il suo carattere, insegnandogli ad amare.

 

aurelio picca

Ecco Giorgio Chinaglia, «barbaro, leale, bestia di passione», e Nino Benvenuti, «console immortale», che tutte le donne di Roma, come un’unica madre e un’unica amante, vorrebbero strappare dai colpi micidiali di Carlos Monzon, la notte del 7 novembre 1970, durante il match per il titolo mondiale dei pesi medi. Molte pagine dell’Arsenale di Roma distrutta, come ci si poteva anche aspettare, sono dedicate ai grandi criminali e alle loro imprese votate all’insuccesso e alla tragedia.

 

monzon benvenuti

Rapinatori, sequestratori, assassini di cui Picca sbozza a tratti rapidi e incisivi il carattere e i gesti, senza nessun gusto per l’aneddotico e il sensazionale, semmai attenendosi a un elementare sentimento epico dell’audacia e della disperazione. Disgustato dai delinquenti «in pantofole, inciviliti» di oggi («tipi che, se devono fare il lavoro sporco, lo fanno fare addirittura ai politici»), lo scrittore ricorda le ombre di quegli uomini «feroci, spietati, nudi, estremi, senza paura», che potranno ricordare, ai lettori curiosi di influenze letterarie, certi ritratti dei bassifondi di Odessa usciti dalla penna del grande Isaak Babel’.

AURELIO PICCA

 

giorgio chinaglia e pele

D’altra parte, nei «fattacci» di Picca non si scorge nessun interesse per il macabro in sé o per l’intrigo noir. La sua è una meditazione morale in forma di narrativa corale, all’interno della quale ogni tipo umano sale sulla ribalta per recitare la parte che il destino gli ha assegnato, lasciando dietro a sé solo la «ferita della perdita», larga e traboccante come «il tramonto dell’Aventino».

 

È da questa prospettiva, del resto, come se il tempo per scrivere fosse il malinconico privilegio di chi scampa a una catastrofe e raccontare equivalesse a contemplare un paesaggio di macerie, che Picca dà forma a un mondo che non esiste più. Qualcosa di fatale e irreversibile si è verificato, dissolvendo la città ermafrodita, dove tutte le cose, le più sublimi e le più infami, trovavano l’occasione di brillare nella loro selvatica, insensata, scandalosa bellezza.

AURELIO PICCA

 

Picca definisce «plebea» quella Roma, opponendola alla città «miserabile» di oggi. Uno dei grandi misteri della vita consiste nel fatto che non sappiamo mai se ci tocca invecchiare in un mondo che ha perso sapore, o se è proprio perché invecchiamo che il mondo perde sapore.

 

Quello che Picca può affermare con certezza, è di averla veramente amata, quella città che «non era capitale di niente», quella «femmina del mondo infame». E quando è arrivato il momento, ce ne ha lasciato un’immagine di rara potenza emotiva, metafisica e carnale al tempo stesso, che difficilmente i lettori potranno dimenticare

nino benvenutiCHINAGLIA COSMOSBENVENUTI MONZONchinaglia GIORGIO CHINAGLIA monzon benvenuti