NE VEDREMO DELLE BELLE: VOLANO GIÀ GLI STRACCI TRA I TECNO-PAPERONI CONVERTITI AL TRUMPISMO – ELON…
Gianmaria Tammaro per "La Stampa"
“Death to 2020”, disponibile da oggi su Netflix, non è una nuova puntata di “Black Mirror”. È un mockumentary di quasi un’ora fatto di interviste, immagini e video. È pieno di battute, di finti esperti e di comicità. Ripercorre il 2020 mese dopo mese, concentrandosi sulla pandemia, sulle elezioni americane, sulle manifestazioni e sugli incendi australiani. È stato girato in poco più di dieci giorni; sono stati coinvolti attori come Samuel L. Jackson e Hugh Grant: uno interpreta un giornalista americano, e l’altro uno storico inglese.
Charlie Brooker e Annabel Jones, produttori esecutivi e creatori, hanno seguito le riprese da remoto, e hanno aggiunto, cambiato e corretto fino all’ultimo momento. Ne hanno parlato per la prima volta a luglio, e da allora hanno messo insieme una squadra di scrittori e di registi, hanno scelto le storie da sviluppare e hanno lavorato in segreto. È una cosa diversa, hanno detto. Perché non è solo uno speciale di fine anno: è una riflessione sul 2020. Nel loro stile, secondo il loro punto di vista, trasformando chiunque, anche la Regina Elisabetta (interpretata da Tracey Ullman), in una maschera.
Ogni personaggio è il tassello di un mosaico più grande, e rappresenta un’idea, una prospettiva, una categoria precisa. C’è la madre di famiglia americana, convertita all’estrema destra e convinta di essere l’unica a conoscere la verità. C’è la psicologa che odia le persone, e c’è la politica ex-trumpiana pronta a negare qualunque cosa, anche l’evidenza. E poi ci sono l’influencer, il miliardario, lo scienziato. E soprattutto c’è la persona comune: il cittadino che vede e che commenta, che sa sempre da che parte stare, che vede tutto come un’infinita divisione, che odia, che giudica, che segue le notizie come un reality show, e che fa il tifo, si dispera e, nella disperazione, si appassiona.
“Death to 2020” è pura satira sociale. Non usa mezzi termini, non sceglie la strada più facile, e certamente non si abbandona al compromesso. Parla di politica, di attualità, di scelte sbagliate. Per Brooker, che ha cominciato proprio così, scrivendo battute e show, è come un ritorno alle origini. «Gli americani faticheranno a riconoscermi». Vero. Perché, appunto, non è “Black Mirror”. Non è fantascienza. Non è un racconto distopico. Qui il presente non guarda al futuro, e il passato non è un monito silenzioso. Ci siamo noi, con tutti i nostri limiti e i nostri problemi, con la nostra voglia di riunirci, di cercarci e di sostenerci, ma anche con la nostra impressionante capacità di ripetere sempre gli stessi errori.
In “Death to 2020” il tempo è sospeso, immobile, e quella che ci viene mostrata è una fotografia ricca di dettagli, di sfumature, di cose che sono state dette (da Trump, per esempio) e di cose che sono successe. La realtà, quest’anno, ha superato la finzione. E la finzione ha provato a cambiare e ad adeguarsi. “Death to 2020”, in questo senso, è come un esperimento. È stato costruito pezzo dopo pezzo, in pochissimo tempo, utilizzando il linguaggio del documentario e quello della commedia. È meraviglia ed è, allo stesso tempo, consapevolezza. La domanda che alla fine rimane è: abbiamo imparato qualcosa dal 2020? Forse, chissà. Molto probabilmente, ahinoi, no.
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