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Gianmaria Tammaro per Dagospia
jeremy renner mayor of kingstown 2
Finito Sanremo, è tempo di ricominciare a cercare qualcosa di bello da vedere. Magari una serie tv. Magari, anzi, due.
Su Paramount+ è disponibile “Mayor of Kingstown”, una serie frenetica, violenta, piena d’azione e di colpi di scena. Creata (co-creata, in realtà: va citato anche Hugh Dillon) da uno degli uomini più potenti e impegnati del piccolo schermo americano, Taylor Sheridan.
E con Jeremy Renner, l’Occhio di Falco della Marvel, nei panni del protagonista. È una storia ambientata in Michigan, nella cittadina, appunto, di Kingstown, dove una coppia di fratelli fa da tramite – a volte letteralmente – tra la polizia, l’ufficio del procuratore e i criminali.
eduardo scarpetta matilda de angelis la legge di lidia poet
L’obiettivo è quello di mantenere la pace; o almeno: di limitare al massimo i danni (sorpresa: missione quasi impossibile). Il titolo della serie, mayor eccetera eccetera, viene proprio da qui. Il personaggio di Jeremy Renner è, in un certo senso, il sindaco della città, perché è da lui che tutti prima o poi devono passare.
Quando è andata in onda per la prima volta, “Mayor of Kingstown” non è stata accolta benissimo. Anzi. Molti critici l’hanno accusata di promuovere violenza e pregiudizi, e di rappresentare un’America estremista e razzista.
È, se vogliamo, la rinascita di un altro tipo di racconto. Sheridan, prima con “Yellowstone” e poi con il suo prequel “1923”, ha spostato l’attenzione del piccolo schermo sulla frontiera americana; e ha rimesso in scena una vita che, per molto tempo, era scomparsa dal cinema e della televisione: quella dei cowboy, dei proprietari terrieri, di chi ha mandrie di bestiame e combatte – anche qui: a volte letteralmente – contro il progresso.
jeremy renner mayor of kingstown
Sheridan incarna, insomma, un conservatorismo romantico, arrabbiato, e lo fa scientemente, seguendo una visione e un’idea. Non è avventato. È furbo, intelligente. E sa evocare, più che costruire, dei personaggi credibili e appassionanti. “Mayor of Kingstwon” è una serie che non cerca compromessi. E non va assolutamente per il sottile. Per questo va condannata? E chi lo sa: parliamo sempre di televisione, alla fine; di – fermi tutti – finzione. E la finzione è una cosa diversa dalla realtà. Su questo possiamo essere piuttosto sicuri.
Se “Mayor of Kingstown” non fa per voi, nessuna paura: su Netflix, dal 15 febbraio, arriva “La legge di Lidia Poët”, con Matilda De Angelis e Eduardo Scarpetta. Possiamo dirlo? Alleluia. Perché non è né una serie figlia della tradizione Rai né, all’opposto, una serie insistentemente verticale. Lo scopo, in pieno ecumenismo produttivo, è quello di coinvolgere il cosiddetto pubblico più ampio e orizzontale. Trovando comunque il modo, e il tempo, per ammiccare agli appassionati della nicchia.
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“La legge di Lidia Poët” è una serie in costume, quindi ambientata in un’epoca che non è la nostra, e racconta una storia vera. Cioè: parte da una storia vera. Quella della prima avvocata italiana (la prima, per essere più precisi, a entrare nell’Ordine). Poi, ovviamente, prende un’altra strada. Resta fedele alle premesse (e anche qui: alleluia) e trova il modo di dire qualcos’altro.
Il miracolo, perché di miracolo parliamo visti gli altri prodotti che sono disponibili in streaming, è merito di Matteo Rovere, santo protettore delle produzioni di genere con la sua Groenlandia; e dei due creatori, Guido Iuculano e Davide Orsini. Ma soprattutto, ecco, il merito è di Matilda De Angelis, che passa naturalmente da un registro più comico a uno più serioso; e di Eduardo Scarpetta, qui completamente mascherato da un altro accento e da una fisicità – attoriale, intendiamoci – prorompente.
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“La legge di Lidia Poët” segue piuttosto dichiaratamente il successo di “Enola Holmes”, la serie di film con Millie Bobby Brown e Henry Cavill. Ma è anche una serie profondamente (siamo a tre “alleluia”) italiana. Per intuizioni e costruzione: nessuna “americanata”; nessun tentativo di fare l’impossibile; ogni cosa è concreta, solida, con i piedi ben piantati per terra. In “Lidia Poët” c’è la schiettezza di chi non ha paura di affrontare certi temi (diseguaglianze, pregiudizi, sessismo) ed è pronta a mandare a quel paese chiunque – dal punto di vista artistico, chiaramente. In questa serie, e Netflix ci perdonerà i vaghissimi spoiler, ci sono: omicidi, indagini; colpi di scena; scene di nudo; scene di nudo frontale; sesso, battute, ironia; divertimento e, fermi tutti, talento. Dura solo – sì, solo, ahinoi – sei episodi.
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