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Gino Castaldo per “la Repubblica”
Scontato, prevedibile, ovvio, ma la verità è che la tanto attesa autobiografia di Bruce Springsteen non poteva intitolarsi in alcun altro modo: Born to run. Punto e basta.
Lo racconta sull’edizione americana di Vanity Fair David Kamp, in un’intervista nella quale il Boss anticipa alcuni degli spunti del libro che uscirà in tutto il mondo il 27 settembre, sottolineando come quel pezzo, scritto all’età di 24 anni nella veranda della sua casetta nel New Jersey, rimane l’unico pezzo che in quarant’anni di concerti non è mai mancato.
«Un buon pezzo raccoglie gli anni che passano», racconta il Boss, «è il motivo grazie al quale puoi cantarlo con tale convinzione quarant’anni dopo averlo scritto.
Un buon pezzo prende nuovi significati con gli anni che passano. Credo che il segreto sia nelle parole: “voglio sapere se l’amore è selvaggio, voglio sapere se l’amore è reale”, ce lo chiediamo ogni singola sera io e tutta quella gente che sta lì fuori». Se il titolo può sembrare ovvio, di certo non lo sarà il contenuto del libro.
«Sapevo che per scrivere dovevo andare alla radice dei miei problemi», racconta Springsteen e così ha fatto, senza ghost writer, scrivendo da sé ogni singola parola e regalando ai lettori confessioni inedite, soprattutto sul suo momento più critico: intorno ai 60 anni, quando ha combattuto la depressione, e ha affrontato un delicato intervento chirurgico per riattivare il suo lato sinistro affetto da una sorta d’indebolimento che poteva cronicizzarsi.
Il tema centrale del suo racconto sembra essere il rapporto col padre: una relazione difficile, tormentata, poco appagante, che spiegherebbe, almeno in parte, quel senso continuo di ricerca che caratterizza tutta la vita di Springsteen:
«Ho sempre pensato di avere qualcosa in comune con Sisifo, in un modo o nell’altro I’m always rolling that rock », intraducibile e gustoso gioco di parole per evocare la punizione subita da Sisifo che doveva spingere la pietra sull’altura per poi vederla rotolare sul fondo e ricominciare da capo, in eterno.
«I concerti», continua, «sono la più affidabile forma di autoguarigione. Producono euforia, ma il pericolo arriva quando pensi: hey man, vivrò per sempre! Percepisci tutto il tuo potere. Poi scendi dal palco e realizzi che è finita. E così la mortalità rientra in gioco».
C’è poi, praticamente già pronto, un nuovo disco di inediti, ancora senza titolo, del quale dice: «Sarà più un disco da songwriter » ma non paragonabile ai ruvidi album solisti del passato, piuttosto «un disco pop con archi e molti strumenti».
SPRINGSTEEN
BORN TO RUN AUTOBIOGRAFIA SPRINGSTEEN
SPRINGSTEEN 8
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