DAGOREPORT – MATTEO FA IL MATTO E GIORGIA INCATENA LA SANTANCHÈ ALLA POLTRONA: SALVINI, ASSOLTO AL…
Giuseppe Videtti per “la Repubblica”
«Ci ha dato libero accesso ai suoi archivi, non avevamo idea di quanto materiale avesse in magazzino. La verità è che dal 1963 a oggi non si è mai disfatto di nulla. Qui però non ha mai messo piede. Tutto questo per lui è ieri. Ha la testa da un’altra parte», disse Geoffrey Marsh, uno dei curatori di “David Bowie Is”, all’inaugurazione della mostra al Victoria & Albert di Londra, la stessa che vedremo al MAMbo di Bologna dal 14 luglio al 13 novembre.
Era il 2013, Bowie aveva altro da fare, stava preparando la sua definitiva uscita di scena. Per il mondo era un genio in ritiro, per amici e familiari un uomo malato, determinato a programmare nei minimi dettagli gli ultimi mesi — le incisioni, il testamento artistico, la fine assistita quando il fisico minato non sarebbe stato più in grado di sopportare le terapie palliative.
Una dipartita silenziosa, eppure in qualche modo clamorosa; più scioccante perché priva di lacrime — il giorno prima sorridente, impeccabile nel suo completo di Thom Browne davanti alla palazzina newyorchese in mattoni rossi, il giorno dopo un corpo esanime pronto per la cremazione col rito buddista. Esempio di stile anche nel distacco. Drammatico? Solo per noi, i fan.
In realtà tutt’altro che solenne, naturale piuttosto — il più potente super-io del rock pronto a rimettersi in sintonia con l’universo senza la mediazione di angeli e/o demoni.
Dunque, perfettamente space oddity. Troppo concentrato sul volo finale, Bowie ha lasciato agli altri la cura dei cimeli, diventati oggetti rituali più potenti di dorjetibetani. Non importa se a indossare i costumi di Ziggy Stardust o Diamond Dogs o Thin White Duke o Blue Clown o Glass Spider sono manichini.
Colori, tagli, combinazioni, audacia, provocazione, kitsch, ricercatezza — gli oggetti in mostra hanno un suono, un potere, sovversivo e sofisticato, che ha canalizzato l’avanguardia nel mainstream; William Blake, Bertolt Brecht, Nietzsche, Artaud, Dalí, Judy Garland e la Dietrich dentro Philip Glass, Andy Warhol, Kansai Yamamoto, Kate Moss, Tilda Swinton, Alexander Mc-Queen, Hedi Slimane e Marshall McLuhan. La storia di chi la moda non l’ha mai seguita, l’ha fatta.
LIFE ON MARS ( 1972)
Eclettico, indefinibile, inimitabile fin dall’inizio. Per costruirsene una, Bowie usava spregiudicatamente le storie degli altri. Col risultato che la sua era sempre la più bella. Elevò povertà e sciatteria del flower power col mito prepotente del superuomo, l’eleganza dandy di Oscar Wilde con l’indefinibile look dell’extraterrestre, lui che alieno si sentiva davvero e della diversità stava facendo arte.
Freddie Burretti fu lo stilista che lo aiutò a trasformare il fai da te della fine degli anni Sessanta (scampoli di look mod, Haight-Ashbury e stravaganze hollywoodiane assemblati da David insieme alla futura prima moglie Angie) nel guardaroba più ricco, trasgressivo, creativo e influente di una rock star.
Burretti (al secolo Frederick Burrett, morto a Parigi nel 2001) aveva diciannove anni quando nel 1971 conobbe i Bowie a “El Sombrero”, una discoteca gay e supertrendy di Londra. David era intrigato dalla bellezza del ragazzo. «Ne farò il nuovo Mick Jagger» , diceva, ma il sogno di Burretti era lavorare per Valentino.
La trasformazione del look da Hunky Dory a Ziggy Stardust fu merito del giovane sarto (e delle micidiali, folgoranti intuizioni di Bowie): il completo ghiaccio concepito per Life on Mars (1972) anticipa di molto i tagli di John Galliano e Alexander McQueen, ma il meglio doveva ancora venire.
ZIGGY STARDUST/ 1 ( 1972)
Nonostante diversi album già pubblicati, Bowie non era ancora una star quando mise mano all’album che avrebbe cambiato la sua vita e le sorti del rock, “The rise and fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars”. David e Angie succhiarono avidamente dall’anticonformismo di Burretti, che all’epoca lavorava per un sarto greco a King’s Road, e della sua girlfriend Daniella Parmar.
Bowie s’ispirò al loro taglio di capelli per il look di Ziggy, accentuando il rosso carota, e indossò le tutine spaziali matelassé che Freddie gli aveva confezionato (ispirandosi ai costumi di “Arancia meccanica” di Kubrick) per le prime apparizioni televisive e il lancio del singolo “Starman”. Personaggio misterioso Burretti: si dileguò dopo aver disegnato i costumi per il Diamond Dogs Tour, la sua famiglia ne denunciò la scomparsa e fu dato per disperso.
Quando si seppe della morte, tutti avevano dimenticato il suo nome. Non Bowie, che scrisse: «È stato uno dei personaggi più creativi con i quali abbia mai lavorato. Freddie e io costruimmo un mondo a nostra immagine e somiglianza. Ho conservato tutto quel che hai fatto per me, ne avrò cura in tua memoria».
ZIGGY STARDUST/ 2 ( 1973)
Ziggy stardust rubò la scena a David Bowie, lo ridusse, parole sue, a un fragile psicopatico schizoide preda della cocaina. L’epopea dell’alter ego fu fulminante: dal gennaio 1972 al giugno 1973, quando in un mesto e delirante finale di concerto all’Odeon di Hammersmith (filmato da D. A. Pennebaker) l’artista annunciò ai fan in lacrime la morte di Ziggy.
Per calarsi nei panni del messia rock venuto dallo Spazio Bowie utilizzò un complice “alieno”, Kansai Yamamoto, il primo stilista giapponese approdato a Londra, anni prima di Yohji Yamamoto e Rei Kawakubo.
Con lui Bowie mise a punto il look di una creatura dalla bellezza inquietante e visionaria, indefinibile sessualmente ma non asessuata, sospesa nel tempo e nello spazio, star di Broadway, off-Broadway e kabuki onnagata — gli attori che interpretava-n o ruoli femminili nel teatro giapponese.
Glam, transgender, camp rock? Di più, e oltre. I costumi avveniristici di Yamamoto e il make up di Biba modellato sulle maschere kabuki definirono una nuova forma di cabaret rock che sconvolse la mente di Bowie e istigò nel giovane pubblico una morbosità che non si ricordava dai tempi di Elvis.
ASHES TO ASHES ( 1980)
Minimalismo e sobrietà: con la trilogia berlinese Bowie fece piazza pulita degli isterismi di Ziggy, ma anche del fragile crooner che negli anni di “Young Americans” e “Station to Station” si mostrava nei talk show letteralmente divorato dalla cocaina.
Fece cinema (“L’uomo che cadde sulla terra”,”Just a gigolo”), teatro (“The Elephant Man”), conobbe Lennon e Elizabeth Taylor vestito da perfetto gentleman. Le fantasie transgender rispuntavano qua e là, come nel video di “Boys Keep Swinging”, diretto da David Mallett, in cui c’è anche un cameo della Dietrich.
Ma fu nel minifilm di “Ashes to Ashes” che Bowie recuperò il suo smalto di trasformista, indossando quel magnifico costume da Pierrot disegnato da Natasha Korniloff (che si occupò anche del guardaroba dello Stage Tour); in pochi minuti, scampoli di commedia dell’arte, suggestioni degne di Watteau e qualche referenziale autoironia (il Maggiore Tom di “Space Oddity” è ora un pensionato tossicodipendente).
SOUND + VISION ( 1997)
Nel look della maturità, eleganza e stile soppiantano stravaganza e trasgressione. Sebbene abbia sempre continuato a professarsi un ignorante in fatto di moda (c’è poco da crederci, soprattutto dopo il matrimonio con la top model Iman Abdulmajid), Bowie era perfettamente consapevole di aver fornito spunti a dozzine di blasonati couturier.
Il crooner postmoderno degli ultimi decenni poteva anche affidarsi a questo o a quello stilista — nelle creazioni c’era comunque la sua impronta, che la confezione portasse la firma di Giorgio Armani (Sound + Vision Tour), Alexander McQueen (Earthling; Outside Tour), Hedi Slimane (Heathen Tour) o Deth Killers of Bushwick (Reality Tour). Ormai Ziggy Stardust ci aveva trasformato tutti in guardoni. E Bowie schiavizzato con il suo slogan, “sound + vision” .
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