"CHIESI A DELL'UTRI SE FOSSE PREOCCUPATO PER IL PROCESSO?' MI RISPOSE: 'HO UN CERTO TIMORE E NON……
Marco Giusti per Dagospia
Notizie dal Torino Film Festival, arrivato ormai alla sua 39sima edizione, che io seguivo fin dai suoi inizi, quando ancora, nel 1982, si chiamava Festival Internazionale Cinema Giovani e i direttori erano Gianni Rondolino e il regista Ansano Giannarelli e la forza del festival era quella di riuscire a riunire le forze critiche e organizzative migliori della città, Alberto Barbera, Steve Della Casa, Roberto Turigliatto, Sergio Toffetti, allora tutti amici e neanche trentenni.
Ma anche di attrarre forze critiche esterne, come Marco Muller, che per Torino produsse la più grande rassegna di film cinesi mai vista allora in Occidente, chiamata “Ombre elettriche”. Inutile dire che da quell’esperienza sono nati i migliori direttori di festival che abbiamo avuto in Italia, come appunto Barbera e Muller, mentre Della Casa, Turigliatto e Giulia D’Agnolo sono stati direttori importanti del Festival di Torino.
Da due anni è direttore Stefano Francia, già attivissimo ai tempi di Barbera, che cerca di continuare, pandemia permettendo la tradizione torinese. Confesso che, dopo tanti anni, la grande multisala del Massimo, che un tempo mi sembrava così nuova, andrebbe rimessa a posto, e vedere assieme Sala Cabiria, Sala Soldati e Sala Rondolino fa un certo effetto.
Ieri ho visto due film al Massimo. Un bellissimo horror spagnolo per la sezione Le stanze di Rol, “La abuela” di Paco Plaza, regista del celebre “Rec”, sceneggiato da Carlos Vermut, autore di “Magical Girl”, costruito proprio con due attori, e un vecchio appartamento a Madrid.
I due attori, anzi le due attrici sono la bellissima giovane Amudena Amor, qui al suo primo lungometraggio nel ruolo della nipote e aspirante modella Susana, e la clamorosa Vera Valdez, 84 anni, celebre modella brasiliana scoperta da Elsa Schiaparelli e poi musa di Coco Chanel, come la nonna Pilar. Le due donne sono vissute sempre insieme, sono anche nate nello stesso giorno.
Quando Pilar, che vive da sola a Madrid, cade da sola in casa e si fa male, viene chiamata in aiuta la nipote Susana, che cerca di far successo a Parigi nel mondo della moda. Visto che la nonna non riesce più né a parlare, né a esprimersi, Susana deve occuparsi di lei. Pensa anche di poterla affidare a una badante e tornare alla sua vita. Non sarà facile, visto che tornando a casa, la nonna si rivela una presenza non così tranquilla.
E la situazione si trasformerà, poco a poco, in un incubo. Benissimo scritto, diretto e interpretato, è il tipico esempio di piccolo horror intelligente che gli spagnoli sanno fare benissimo. Ma ha dalla sua la presenza strepitosa della vecchia modella Vera Valdez, che con pochissimo riesce a affascinarci e a farci terrore e non si esime del mostrarsi vecchissima e nuda. Favolosa.
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Il secondo film che ho visto, e, vi giuro è una totale riscoperta da fare vedere subito a Papa Francesco, è il “Don Bosco” restaurato diretto nel 1935 da Goffredo Alessandrini con Giampaolo Rosmino, ma soprattutto prodotto da Riccardo Gualino, genio dell’imprenditoria di questo paese e personaggio fondamentale per la creazione di tutta la nostra industria cinematografica, visto che dalla sua società, la Lux Film, nasceranno come produttori esecutivi e poi produttori in proprio sia Carlo Ponti che Dino De Laurentiis che, nel bene e nel male, faranno il nostro cinema del dopoguerra.
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Finito al confino per ordine di Benito Mussolini, depredato di ogni bene, soprattutto della sua incredibile collezione d’arte, nel 1932 il piemontese Gualino viene liberato, torna e fonda la Lux, con tutto quello che in termine di massoneria significava il titolo, società di distribuzione francese che lanciava in Europa i film americani della RKO.
Due anni dopo decide di produrre il suo primo film italiano targato Lux, appunto “Don Bosco”, un biopic, si direbbe oggi, sulla vita di Giovanni Bosco, “robusto figlio del Monferrato” che si inventò gli oratori salesiani per il recupero e la formazione professionali dei ragazzi più poveri finiti in riformatorio o con forti problemi di relazione sociale. Nel Piemonte sabaudo del pieno ’800, Don Bosco lotta per offrire a tutti un lavoro più che solo una fede e porta il suo laboratorio in tutto il mondo, come vediamo anche nel film.
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Gualino impone al regista Alessandrini la scelta di non attori piemontesi, che parlino anche in dialetto, scelti nelle vere zone che erano state teatro della vita di Don Bosco. Cerca anche di non farne proprio un documentario, ha l’idea di spettacolarizzare un po’ la storia, ma si scontra un po’ coi salesiani che vedono il prete come un santo quasi intoccabile.
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Del resto è stato fatto beato da Papa Pio XI proprio nel 1933, momento che si vede anche nel film. Ovviamente il Duce non può dire niente rispetto alla doppia morsa che stringe Gualino, la massoneria da una parte, Salesiani e Pontefice da un’altra. Inoltre è ovvio che Gualino, grande manager e imprenditore piemontese, veda Don Bosco quasi come un altro se stesso che inizia proprio dal lavoro e dal sogno la sua esistenza professionale.
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Così il film inizia il suo viaggio capillare in tutte le parrocchie per una distribuzione profonda non solo in territorio nazionale, ma in tutto il mondo. E oggi ci appare decisamente moderno, quasi pre-neorealista, del resto è scritto da Sergio Amidei e Aldo vergano, assolutamente non agiografico.
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