DAGOREPORT - BLACKSTONE, KKR, BLACKROCK E ALTRI FONDI D’INVESTIMENTO TEMONO CHE IL SECONDO MANDATO…
Matteo Cruccu per il Corriere della Sera
L’hanno definito il «Mefistofele del talent show», il giudice antipatico e implacabile (e però giusto) e lo riconoscono ormai anche i bambini per strada per chiedergli i selfie. Ma Manuel Agnelli, pronto alla seconda stagione di «X Factor», rimane sostanzialmente un rocker.
Uno dei rocker più longevi d’Italia, visto che con gli Afterhours — universo in cui molti pianeti sono cambiati, ma il sole rimane sempre lui — ha raggiunto il ragguardevole traguardo dei trent’anni d’attività. Che celebrerà, al solito, su un palco, partendo da Roma, il 27 luglio al Postepay. Come ci si sente a 30 anni? «Pronti a una festa col pubblico. Consapevoli che il nostro è stato, fin da subito, un progetto mediamente ostico. Prima di tutto perché fuori dalla tv: si può dire che io l’abbia conosciuta con “X Factor”, quando molta gente si è chiesta chi fossi. Eppure abbiamo sempre avuto un grande seguito. Una distorsione».
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Chi erano gli Afterhours nel 1987? «Dei freak fuori da ogni logica: il successo è arrivato dopo. Ecco, ma il Manuel dell’87 avrebbe approvato il Manuel giudice di «X Factor»? «Sicuramente no. A 21 anni ero molto più estremo, la mia funzione era scombussolare l’esistente, non prestare il fianco a quello che era riconosciuto. Oggi sono più concreto». Chi era riconosciuto allora erano i Duran Duran, che riempivano gli stadi: non ha avuto parole tenere per loro. «Le confermo, a quei tempi noi si ascoltava i Cure, i New Order, i Joy Division, i Talking Heads, gli Smiths e potrei continuare ore. I Duran erano la barca a vela, le donne, la plastica, l’edonismo reaganiano. E dei musicisti mediocri. Smentisco invece di aver mai detto male dei Queen, quattro artisti formidabili.
Per me riempire gli stadi non significa nulla: Lou Reed probabilmente non ci ha mai suonato, ma rimane uno dei più grandi». Vasco Rossi ha suonato di fronte a 230 mila persone. «Infatti è un dato che mi interessa poco, mi interessa ciò che si dice. E sicuramente l’importanza sociale di Vasco è stata enorme, all’inizio degli anni 80 è stato super rappresentativo per la sua generazione, ha spostato l’attenzione delle persone, come Lou». Ma Vasco e gli Afterhours avrebbero passato le selezioni di “X Factor”? «No, né lui, né noi. Non è mai stato un personaggio standard per la tv, vedi le sue esibizioni di allora. E anche noi eravamo un progetto televisivamente inconciliabile».
Sembra dare ragione a Dave Gahan dei Depeche Mode: «Non farei mai il giudice a un talent, lì ti insegnano solo a come diventare famoso facendo musica d’altri». «Un grande degli anni 80, lui sì. Ha ragione se pensiamo al programma com’è stato fino a oggi. Ma un certo modo di fare il talent si è esaurito». Ovvero? «Detto che Stones e Beatles hanno iniziato con le cover e che se uno ha una gran voce, ben venga, bisogna ricominciare a pensare anche agli autori, non solo agli interpreti. Quest’anno qualcosa cambieremo. “X Factor” è un “supercannone” e la sfida è portarlo vicino alla nostra sensibilità, fargli cambiare rotta».
Si dice che i talent creino «fabbriche di illusi». «Non sono d’accordo. Il talent ti dà una esposizione gigantesca. Poi è il sistema che ti deve assecondare nella crescita, le discografiche, i manager, i promoter. Non sempre lo fa. E comunque la storia della musica è piena di gente che ha realizzato un singolo e poi è sparita. Chi vuol diventare musicista sa che non è una carriera per chi vuole sicurezze. Alla fine, meno male che non esiste una catena di montaggio».
Cioè? «Che non si debba passare solo da un posto per avere successo. E il metro non possono essere solo i numeri. Guardate me. Non ho venduto milioni di dischi, eppure ho fatto sempre quello che ho voluto, con una libertà che le popstar si sognano». Fra 10 anni la vedremo su un palco o in un salotto tv? «Su un palco. La tv è una felice parentesi. Ma io voglio fare il musicista». Avrà sessant’anni per allora.
Vuole diventare come gli Stones? «È un falso mito che si debba essere giovani per fare i concerti. I bluesman suonano fino a novant’anni. Certo, non rappresento più la mia generazione, da un pezzo. Ma ciò, in qualche modo mi rende più libero, non devo per forza avere un ruolo. E la libertà è, sempre, la cosa più importante».
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