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Stefano Giani per “il Giornale”
Lo chiamarono il «Killer» ma non ha ucciso nessuno. Il suo compleanno numero 41 lo festeggiò con un gesto estremo. Puntò la pistola contro il bassista Butch Owens, credendola scarica. E sparò. Seppur colpita al torace, la vittima sopravvisse. Era il 1976 e fu un miracolo. Tuttavia Jerry Lee Lewis non si è ritrovato quel soprannome per l'omicidio sfiorato ma per la carica rivoluzionaria, un po' selvaggia e anticonformista con cui suonava. Era del '35, coscritto di Elvis Presley, che un anno dopo quella festa di fuoco se ne era già andato.
Come lui, il «Killer» non era tipo da risparmiarsi e sul palcoscenico dava fondo a tutte le sue intemperanze, buttando via gli sgabelli del suo pianoforte, suonando con le scarpe, concludendo canzoni e concerti seduto sulla tastiera. «Il pubblico paga un biglietto per godersi uno spettacolo, non solo per qualche ora di buona musica», commentava. Già. Buona musica, però, era un concetto.
Un'opinione. E per i pionieri del rock non fu tutto in discesa. Le volte che la chiesa, di cui era parrocchiano, lo reclutò per suonare, si scoprì a gestire un bizzarro figlio di Dio che, quei canti, li aveva adattati in chiave rock. Fu chiaro a tutti che Jerry Lee Lewis non si sarebbe esibito per Gesù, come era convinta sua madre, ma sarebbe stato un profeta in ben altra chiave.
E avrebbe accompagnato con la sua colonna sonora vita, sogni e svago dei giovani anni Cinquanta e Sessanta, stregati da quel nuovo modo di cantare e ballare di cui «the Pelvis», Chuck Berry, Little Richard, Bo Diddley e naturalmente lui furono anticipatori. Ad aiutarlo pensò il destino e il «Killer» indovinò due successi planetari.
Di Whole lotta shakin'going on faticò perfino a ricordare i testi e più di una volta dovette improvvisare, inventandoseli sul momento. L'altra, Great balls of fire, si era perfino rifiutato di cantarla. Almeno sulle prime. Erano troppo numerosi i riferimenti al sesso e al fuoco che non rispecchiavano il suo credo religioso. Invece divenne la hit di un'intera generazione. E non solo. Lui fu subito un mito.
Vendette centinaia di migliaia di dischi. Finì in cima alle classifiche. Fece ballare milioni di ragazzi. E si ritrovò ospite di ogni genere di show televisivi nell'America che usciva dalla guerra con tanta voglia di sfogarsi.
Ed è su un attento lavoro di archivio, sui filmati originali dell'epoca e su spezzoni - anche ampi - dei suoi concerti che ha lavorato Ethan Coen nel film Jerry Lee Lewis: Trouble in mind, presentato a Cannes tra le proiezioni speciali e subito affollatissimo. Non è un docufilm, non è nemmeno un biopic, è una carrellata di canzoni, volti notissimi e testimonianze personali del protagonista che racconta se stesso senza essere intervistato. E spiega perché il leggendario Elvis sia diventato più famoso di lui.
«Tom Parker era un manager eccezionale, unico a scovare talenti e a imporli alla ribalta». Gli incroci con il festival di Cannes 2022 si moltiplicano perché proprio Elvis dell'australiano Baz Luhrmann è tra le opere fuori concorso di questa edizione e verrà presentato giovedì. Tom Hanks interpreta proprio i panni di Tom Parker che racconterà l'affermazione e il declino dell'artista di Memphis dalla propria particolare prospettiva dell'uomo che lo ha valorizzato.
Alle origini del rock, dunque, in un doppio ritratto che ricostruisce un pezzo di America chiuso in un fazzoletto. Dalla Louisiana di Lewis al Tennessee di Presley dove tutto ha avuto inizio ma non fine.
E oggi Graceland è il santuario musicale di un personaggio scandagliato in ogni aspetto della sua vita pubblica e privata come non è accaduto per il film di Coen. L'abilità narrativa del regista di Fargo e Non è un paese per vecchi sta proprio nella capacità di sintesi - ottanta minuti scarsi di durata contro i 150 di Elvis - che non pregiudica esaustività e non indulge nel didascalismo.
Così, Jerry Lee Lewis viene messo a fuoco anche nel suo lato debole, i sette matrimoni tra i quali spicca il terzo con Myra Gale Brown, figlia di un cugino e sposata il giorno prima che compisse tredici anni. L'America puritana, buonista e benpensante fece fatica a mandarla giù e si sforzò di riderci sopra. La battuta più gettonata era che «il Killer avesse adottato sua moglie» ma, se gli Stati Uniti ironizzarono, l'Inghilterra non fu altrettanto remissiva.
Ombre di incesto si mescolavano a un'età giudicata davvero prematura e, nel 1958, quando l'opinione pubblica scoprì che quella ragazzina al seguito del cantante non aveva i 15 anni da lui denunciati come paravento, l'intera tournée fu cancellata dopo i primi tre concerti, ai quali non seguirono i 34 previsti.
Alla fine degli anni Settanta il declino prese il colore delle malattie, per lo più dovute agli abusi di alcol più che di droga. Un'ulcera perforante fu scongiurata in tempo mentre un infarto gli impedì di suonare quel piano con cui aveva stregato il mondo. Lui, da bravo autodidatta quale fu in giovane età, tale si confermò anche in una fase meno verde. E, sempre da insegnante di se stesso, escogitò un sistema per non rinunciare alla tastiera.
Oggi, a 86 anni suonati, dopo aver visto morire tre figli e due mogli, è rimasto l'unico ancora in vita di una generazione mitica che non esiste più. Perché il suo destino è sopravvivere. Forse anche a se stesso
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