Benny Casadei Lucchi per ''il Giornale''
livio berruti
Dentro al bar sport del paese la solita nebbia tabaccaia, le solite voci concitate, le solite lezioni di sapienza calcistica di commentatori improvvisati. «Meglio la Juventus, meglio il Toro, no, meglio la Pro Vercelli...». A Stroppiana non era mai tardi ma era sempre tardi. In campagna, d' inverno, va così. Ci si distrae un attimo e, oplà, il sole basso del Piemonte scappa via, immergendo ogni cosa nel buio. Uscito dal bar, al piccolo Livio la Rua Secca faceva un po' paura. Babbo lavorava a Torino, mamma con il nonno «e io mi arrangiavo, finivo i compiti e poi subito in giro a saltare fossi.
Infanzia selvaggia, con Alì, il mio alano, e il montone geloso, regalo di papà, pronto a incornare chi mi si avvicinava». C' erano anche i gatti a fargli compagnia. Livio li incontrava la sera, rincasando, i loro occhi erano come il faro per le navi. Gli indicavano la via, dandogli uno scopo: inseguirli. «Ho iniziato a correre così. Contro di loro. Per acchiapparli o solo avvicinarli».
Contro. Ecco il termine giusto per riassumere Livio Berruti in una parola. Contro rappresenta la preposizione della sua vita e l' avverbio del suo essere. Livio un uomo contro a 21 anni quando stringeva mani prima della gara e non si doveva e non si poteva e però conquistò la vittoria più vittoria che ci sia: l' oro nei 200 con record del mondo nelle Olimpiadi di casa, a Roma 1960, battendo tutti i Bolt di allora riuniti assieme ai blocchi di partenza. Livio un uomo contro oggi, a quasi 80 anni, li compirà il prossimo maggio.
livio berruti wilma rudolph
Contro la forza centrifuga «che mi dava quasi un piacere fisico sfidarla». Contro l' ignoranza e le discriminazioni «perché l' unica classe sociale che riconosco è quella dell' intelligenza». Un uomo contro il razzismo «e neppure ci accorgemmo, io e Wilma, che ci eravamo presi per mano e stavamo camminando, dita intrecciate strette strette, dita bianche e dita nere...». Un uomo contro la guerra fredda, atmosfere da spy story e sguardi scuri, soprabiti, delazioni «era il 1961, ero a Mosca, stavo ballando con la figlia dell' ambasciatore quando vidi lei, era bellissima, appena fuori salimmo su un taxi. Non sarebbe mai partito. L' autista aveva l' ordine di segnalare gli occidentali alla polizia. Scappammo...». Un uomo contro le facili mitizzazioni, i campioni che nei racconti e nell' esaltazione popolare diventano perfetti e «io, per primo, non lo ero, però anche su Pietro Mennea vorrei dire due cose...». Un uomo contro il buonismo prêt à porter a costo di risultare impopolare, perché «ci sono frasi di Papa Francesco che non accetto... a volte penso sia poco più che un buon parroco di campagna».
Corre veloce e contro tutti come allora, con la stessa naturalezza, Livio Berruti. «Anche se questa sciatica mi tormenta e, però, anduma!, accomodiamoci qui», dice mentre Silvia, sua moglie, si siede lontana dal mito e vicino al marito sposato vent' anni fa.
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Lei avvocato più giovane, lui campione più vecchio e dottore in chimica «perché ho sempre visto il matrimonio come un impedimento alla mia libertà operativa e così ho vissuto in modo anarcoide». La prova delle sue parole sta scritta sulla partecipazione a quel giorno di festa del 1998, «colpiti da improvviso raptus nichilista», si legge, «farcito di intimo piacere (Silvia) e di apocalittica vocazione all' olocausto (Livio)». Galeotta fu La Storia del pensiero filosofico del Geymonat, «la vidi in bella mostra a casa sua», svela lei, «e compresi che Livio non era solo piedi e corsa...».
Era anche caviglie.
«Erano forti. Grazie ad esse affrontavo la curva dei 200 in quel modo, presentandomi davanti a tutti a inizio rettilineo».
Merito dell' amore per il pattinaggio che le aveva insegnato a stare inclinato in curva, giusto?
«Sbagliato. Pattinare mi piaceva, questo sì. Ma ghiaccio e pattini non c' entrano.
Semplicemente, mi veniva bene correre in curva. Mi dava quasi un piacere erotico affrontarla. La storia dei pattinaggio venne fuori quando andai a Tokyo per delle gare indoor, nel 1961.
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Ero il campione olimpico in carica, all' arrivo media e tv mi chiesero il segreto della mia corsa, pensai che gli dico adesso?. Fu allora che mi venne in mente il pattinaggio». Ride. «Da lì in poi si misero tutti a pattinare... Credo di aver rovinato un' intera generazione di velocisti nipponici. La verità è che pattinavo bene perché avevo le caviglie forti e non viceversa».
E il piacere erotico in curva...
«È la sensazione provata nell' inclinarmi all' interno e vincere la forza centrifuga che cercava di spingermi fuori, è rialzarmi per ritrovarmi davanti a tutti, è una liberazione di energie, è uno svelamento di forze».
Campione olimpico a Roma, con due record del mondo nello stesso giorno e contro gli Stati Uniti che dominavano la specialità dal 1932.
«Io avevo 207. Ma c' erano i tre primatisti mondiali. Mi stimolava la presenza dei più forti. E che due di essi fossero americani. Ero curioso di vedere dove sarei arrivato».
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Cosa le avevano fatto gli americani?
«Nulla. Solo che l' America era la padrona del mondo. Era il 1960, era l' Italia della ricostruzione, erano anni pieni di ideali, di spinta. Ci sentivamo tutti protagonisti di un progresso e di una creatività che invece adesso mancano. Ognuno di noi era artefice di un restauro del Paese, di un recupero di energie e di immagine che avevamo perso con la guerra. Eravamo preda di questa voglia collettiva di esibirci, di non fermarci, di andare avanti e dimostrare che l' Italia era ancora viva. E per misurare la nostra forza non c' era nessuno meglio degli americani con cui confrontarsi: i padroni del mondo.
Mi stimolava scoprire fin dove sarei riuscito ad arrivare per combatterli in pista, senza mostrare soggezione o debolezze. Sapevo che se fossi giunto in finale, sconfiggerli sarebbe stato l' obbiettivo».
E ci riuscì. Due volte. In semifinale e finale. Con il record del mondo: 205. Curiosità soddisfatta.
«Sì. E guardi che la curiosità non va sottovalutata. Misura la qualità di un giovane.
Sei vecchio quando la perdi. Purtroppo, ora, il benessere ha creato un tale torpore che tanti giovani sono già vecchi mentalmente, mentre molti anziani sono rimasti giovani e hanno ancora voglia di produrre e creare...»
Com' è l' Italia adesso?
«Viviamo in un Paese dove manca la visione ad ampio raggio. Ci sono comportamenti da piccolo cabotaggio dove si mira solo all' interesse particolare, dimenticandosi di quello generale. Assistiamo a una mancanza di visione, di proiezione verso il futuro. Lo sport e lo studio mi hanno insegnato l' uguaglianza, a sentirci uguali, invece ora si tende a una distinzione sempre più esasperata; a valutare le persone, non dico tra buone e cattive ma tra fortunate e sfortunate, tra chi ha più soldi e chi meno. Mentre per me l' unica gerarchia è l' intelligenza»
E i giovani di oggi?
«Sono alla spasmodica ricerca della vittoria facile e dell' immagine. Perché viviamo in un' epoca in cui quel che conta è trionfare o finire sui media. Dove la notizia è fake perché è meglio leggere qualcosa di curioso e falso piuttosto che di vero e banale. E i giovani, nella vita come nello sport, vogliono riuscire ma facendo poca fatica. Si spiega così il successo di tanti sport molto minori; più semplice diventare campioni lì. I giovani di oggi sono tutti malati di campionismo. Mentre l' atletica è complicata, impegnativa, affollata di rivali».
Ma i suoi erano altri tempi, anche l' atletica era meno competitiva.
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«Pensi a Jessie Owens ventiquattro anni prima. L' atletica era già un grande confronto a livello internazionale. A Roma, Ray Norton, Stone Johnson e Peter Radford erano i primatisti mondiali, c' era tensione, c' era pressione. Anche perché l' atletica era lo sport base praticato a scuola. Per cui entrava in casa, tutte le famiglie la seguivano. Io sono un prodotto della scuola».
Oggi non è più così.
«Vede, per formare un giovane servono due sport: il primo, individuale, proprio come l' atletica, per imparare ad assumersi le responsabilità. Il secondo: di squadra, per smorzare l' animo a chi è troppo pieno di sé, insegnandogli l' importanza della collaborazione. Lo sport dovrebbe tornare ad essere una forma di educazione sociale e civile.
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Soprattutto in un momento come questo, in cui la famiglia spesso fallisce a livello educativo. Lo sport rappresenta l' unico strumento ancora capace di insegnare a rispettare le regole e gli altri. Se chi governa non lo comprende, perde la possibilità di fornire ai propri giovani gli insegnamenti che serviranno loro nel futuro, anche nel mondo del lavoro. Persino le aziende hanno capito da tempo che chi pratica sport ha in sé qualcosa in più degli altri per combattere le quotidiane battaglie di vita e lavoro».
Responsabilità politiche, dunque.
«Sì. Dagli anni '80 in poi la politica ha via via vissuto lo sport in modo anomalo, meno formativo, più strumento d' immagine e sempre più come calcio. Quindi con le sue devianze: penso agli atteggiamenti di campanilismo spurio e poco sportivo».
Il governo giallo-verde ha depotenziato il Coni, gestirà direttamente i fondi da destinare alle Federazioni.
«Mi ha stupito. Il Coni stava lavorando bene, senza cadere in esagerazioni. Ma lo sport è ormai uno strumento talmente abbagliante che tutti i politici giocano a fare gli sportivi. La manovra è solo un mezzo per accaparrarsi un servizio di clientele e uno strumento di conquista di immagine a spese dello sport».
Lei come iniziò?
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«Inseguendo i gatti in campagna. Mi accorsi di essere veloce perché spesso li acchiappavo; e perché, a tennis, quando scendevo a rete arrivavo così veloce che non riuscivo a fermarmi e mi toccava saltarla».
Tennista mancato.
«Di più. Iniziai a correre per giocare a tennis gratis».
Non proprio un avvio romantico.
«Ho applicato la regola secondo cui è il caso a determinare il futuro di ciascuno.
Uno dei libri che amo di più è Il caso e la necessità, di Jacques Monod, il biologo e filosofo francese».
E a lei che successe per caso?
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«Al ginnasio, liceo Cavour di Torino, un giorno facemmo l' ora di educazione fisica con un' altra classe, quella del più veloce della scuola, Saverio D' Urso; siamo amici ancora adesso e continua a dirmi che feci fatica a batterlo... Non è vero. Il prof, Melchiorre Bracco, che fin lì mi aveva considerato un saltatore, mi iscrisse agli 80 metri ai campionati studenteschi. Non mi ero mai allenato eppure, pronti e via, feci 9''1, miglior tempo nazionale. Felice Foglietti, un compagno che gareggiava per il gruppo Lancia, mi disse: Dai, vieni a fare la staffetta con noi.... Perché no?, pensai, alla Lancia avevano degli splendidi campi da tennis... Alla prima gara sui 100 feci 114; poi 112. Il prof mi disse: Nelle prossime vai più piano sennò passerai di categoria e non potrò schierarti ai campionati scolastici....
Solo che un giorno invitarono Gigi Gnocchi, il primatista italiano. Era in batteria con me. Per far contento il prof avevo mangiato, così, con la digestione in corso, sarei andato più piano. Niente: 11 netti. Addio campionati con la scuola. Però iniziai a gareggiare stabilmente per il gruppo Lancia e altrettanto stabilmente a giocare gratis a tennis».
Oggi sarebbe potuto diventare Livio Berruti?
«No. Perché la scuola non forma più sportivi, perché mi allenavo poco, perché gli altri si riscaldavano venti minuti prima della gara mentre io arrivavo all' ultimo, li battevo e loro s' incazzavano, pensando che li snobbassi. E perché una volta il talento permetteva di vincere le Olimpiadi. Ora no. Mole di allenamento e stress psicologico sono troppo alti. Non mi piacerebbe. Io non vivevo lo sport in modo totalizzante; avrei preferito diventare uno scienziato o un uomo di cultura, invece...».
Invece, l' oro olimpico. Quel giorno non corse con la digestione in corso.
«E non mi riscaldai. Questo mi aiutò a vincere».
Sonny Liston contro Cassius Clay
Perché?
«Dopo la semifinale vinta col record del mondo, 205, ero arrabbiatissimo. Temevo di aver usato troppe energie, pregiudicando la finale che avrei corso due ore dopo.
Così decisi di riposarmi. Rimasi sugli spalti a guardare gli altri atleti prepararsi e scesi solo all' ultimo momento, il tempo di un paio di allunghi. Poi andai a stringere la mano a tutti loro. Non mi resi conto che li stavo destabilizzando. Pensavano: Berruti è così sicuro di sé che non si riscalda e viene pure a salutarci. Vuol dire che ci mangerà».
L' Italia ha avuto due grandi sprinter, lei e Mennea. Entrambi mai davvero coinvolti nella gestione dello sport.
«Il campione fa ombra ai dirigenti sportivi. Il politico utilizza il campione per la propria immagine, ma poi lo tiene a distanza.
Io sono sceso in campo solo una volta, nel 1988, contro Primo Nebiolo (ex n°1 dell' atletica italiana e mondiale), per via dello scandalo del salto truccato di Giovanni Evangelisti ai Mondiali di Roma '87. Proprio Nebiolo aveva fatto di tutto per coprire la vicenda. Mi candidai solo per combattere lui. E per fortuna vinse Gianni Gola».
Lei e Pietro Mennea.
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«Mi dispiace dirlo: è stato un grande atleta ma con me si è comportato da pessimo uomo. Purtroppo la vicenda che ci riguarda non è mai stata messa in evidenza. Era il 1979, un giornalista mi aveva chiesto che cosa pensassi della decisione di Mennea di rinunciare a gareggiare in Coppa del Mondo, a Montreal. Gli avevo risposto che forse aveva paura, precisandogli che però era un commento da non mettere nell' intervista.
L' articolo uscì invece con la frase Pietro è un fifone. Ovviamente Mennea la prese male e io iniziai a cercarlo al telefono per spiegargli e chiarire. Niente. Si negava. Così andai da lui, a Formia. C' erano delle gare, aspettai, e mi fece aggredire.
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(...) Ma Luca di Montezemolo, all' epoca a capo delle relazioni esterne Fiat, diede indicazione di bloccare tutto. Mennea gareggiava per l' Iveco e io ero un dirigente Fiat che seguiva l' immagine sportiva del gruppo, per cui...».
Mennea non può controbattere.
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«Ma questo fu. E c' erano testimoni. Quanto allo sport, lui ha rappresentato il salto di qualità della nostra atletica dal dilettantismo e puro talento al professionismo. Anche Sara Simeoni era una professionista, ma al contrario di Mennea gareggiava con il sorriso, senza rabbia, senza dare un' immagine incacchiata dello sport».
Diceva del puro talento. Wilma Rudolph, mito dello sport, la gazzella nera, tre ori a Roma 1960.
«Prima delle gare venne da me il suo allenatore. Disse: Wilma vorrebbe scambiarsi la tuta con te. Risposi: Caspita, certo. Ci incontrammo: lei parlava inglese, io lo parlavo malissimo, fra noi poche parole, all' inizio furono solo grandi sorrisi e occhiate. Rimasi abbagliato: dalla sua capacità di trasmettere gioia di vivere. Dopo pochi minuti, senza neppure che ce ne accorgessimo, eravamo mano nella mano a passeggio per il villaggio olimpico. Avevamo anticipato di tre anni Martin Luther King e quel suo sogno un giorno di vedere bianchi e neri tenersi per mano...».
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E il vostro sogno a due?
«Io vinsi un oro, lei tre. Subito dopo mi presentai al villaggio delle donne. Volevo passare dalla fase platonica a quella aristotelica. Non fu possibile. Il comitato olimpico Usa aveva imbarcato Wilma verso casa...Poi scoprii che su di lei aveva messo gli occhi un atleta di nome Cassius Clay... Nel caso, lo scatto e la curva veloce dei 200 mi sarebbero serviti. Era splendida Wilma».
Quest' estate la staffetta femminile azzurra dei 400 era tutta formata da atlete di colore. Ha fatto parlare. Il Paese l' ha vissuta come una novità.
«Se l' atleta di origini straniere è nato in Italia o cresciuto da noi, assimilando preparazione e cultura italiane, allora va bene, è espressione delle potenzialità del nostro Paese. Non così quando gli atleti sono nati, cresciuti o si sono formati culturalmente e sportivamente fuori».
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Per cui medaglie come quelle di Josefa Idem o Fiona May hanno rappresentato meno il nostro Paese?
«Esatto».
Sembra una visione discriminante.
«Ma se io e Wilma andavamo mano nella mano in tempi in cui imperava la segregazione razziale e le battaglie per i diritti erano solo all' inizio... Devo molto al prof di filosofia degli anni del liceo classico: si chiamava Giovanni Turin. Fu lui a inculcarci il sacro valore dell' uguaglianza».
Per questo ha detto del suo erede, di Filippo Tortu (primo italiano sotto i 10 secondi nei 100, 999), che siete uguali in tutto ma lei ha un vantaggio: ha fatto il classico, lui no?
«Suo papà sì, però. Per cui Filippo è salvo. È fortissimo. Ben gestito, ben allenato».
Può emergere a livello mondiale?
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«Un atleta così, con quel fisico e che ama correre bene, che sa estraniarsi, che riesce a vivere lo sport in modo scanzonato, può davvero puntare ai massimi risultati a livello mondiale. Quanto al discorso sul classico, sì, è una scuola che insegna a sentirsi partecipi di una grande festa mondiale, dove valgono la meritocrazia e saper riconoscere e rispettare chi è più bravo, cercando di apprendere da lui, anziché demolirlo. Il classico fornisce una visione più ecumenica, come direbbe Papa Francesco, ma senza le sue venature ideologiche».
Non le piace?
«Non mi esalta. Troppo populista, preferivo Ratzinger, un intellettuale. E non accetto di sentire certi discorsi, come quando va in visita nelle carceri, il cui senso è voi siete i miei fratelli migliori.... Ma come sarebbe?»
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Lei è religioso?
«In modo indipendente. Sono un agnostico. Ritengo che le ideologie politiche e religiose siano soprattutto funzionali al potere di chi comanda in un dato momento».
Però in passato è stato invitato a commentare passi del Vangelo in tv e a convegni con teologi e cardinali.
«Sì. Ricordo quello sull' importanza dello Spirito Santo nel '900. Non sapevo che cosa avrei potuto dire ma poi, salendo sul palco, venni come folgorato sulla via di Damasco e dissi: Ecco, sì, le colombe... Le colombe che si erano alzate in volo durante la mia gara alle olimpiadi potrebbero essere state un messaggio dello Spirito Santo. E fu un successo...».
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Alle Olimpiadi...
«Anche al convegno».