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    “MI DICEVA: È MEGLIO SE UNA MATTINA NON MI SVEGLIO PIÙ” – LA SORELLA DI SARA PEDRI, LA GINECOLOGA 31ENNE DI FORLÌ, RACCONTA IL CLIMA DI TERRORE IN CUI VIVEVA A LAVORO PRIMA DI SCOMPARIRE: “MI PARLAVA DI AGGRESSIONI VERBALI. ERA DISCRIMINATA ANCHE PERCHÉ SI ERA FORMATA A CATANZARO, AL SUD. ERA UN AMBENTE PUNITIVO. UNA VOLTA, IN SALA OPERATORIA, DAVANTI ALLA PAZIENTE, UNA GINECOLOGA LE DIEDE UNO SCHIAFFO SULLE MANI, LE DISSE DI TOGLIERSI IL CAMICE E CHE ERA UN'INCAPACE. TEMEVA DI ESSERE LICENZIATA E...”


     
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    Valeria Arnaldi per "Il Messaggero"

     

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    La paura di non farcela, o meglio di non farcela più. E la disperazione di chi, ogni giorno, si mette in gioco, ma arriva a sera, sentendosi sempre sconfitto. Nonostante impegno e meriti. Nonostante la tenacia. Sono di ansia e terrore le parole - e i sentimenti - ricorrenti negli ultimi scritti di Sara Pedri, ginecologa di Forlì, 31 anni, che lavorava all'ospedale Santa Chiara di Trento, scomparsa lo scorso 4 marzo.

     

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    E ora è proprio nei suoi testi, tra le lettere nell'appartamento a Cles, e il cellulare, che si indaga per capire cosa sia accaduto quel giorno e cosa la abbia portata nelle vicinanze del ponte sul torrente Noce, che porta al lago di Santa Giustina, zona nota per i suicidi, dove è stata ritrovata la sua auto. Abbiamo raggiunto la sorella, Emanuela Pedri.

     

    Sara si diceva terrorizzata, cosa le raccontava?

    «Nell'ultimo mese, mi diceva che sarebbe stato meglio se una mattina non si fosse svegliata. Già prima mi parlava di aggressioni verbali. Diceva che ciò che succedeva lì, rimaneva lì. Non ci si poteva lamentare. Erano urla se si usava uno strumento in modo un po' diverso, pure se lavoravi bene. Era discriminata anche perché si era formata a Catanzaro, al Sud. Non contestiamo la professionalità delle persone, ma la gestione delle risorse umane. Era un ambente punitivo. Una volta, in sala operatoria, davanti alla paziente, una ginecologa le diede uno schiaffo sulle mani, le disse di togliersi il camice e che era un'incapace.

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    Si sentì umiliata. Era dicembre e da lì tutto è precipitato. Temeva di essere licenziata, pensava che nessuno la avrebbe più assunta, ma aveva anche il terrore di andare a lavorare. Aveva le palpitazioni. Aveva perso sette chili. Non dormiva più, mangiava poco, aveva l'orticaria. Tutti sintomi del burn out. In ospedale, però, chi avrebbe potuto vederli, non lo ha fatto».

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    Lei ha intuito qualcosa e l'ha fatta tornare a casa.

     «Sì, l'ho minacciata. Ho detto che se non fosse venuta, sarei andata a prenderla, o avrei chiamato in ospedale. Arrivata, aveva il viso scavato, lo sguardo spento, si mangiava le unghie fino alla pelle. Il medico di base le ha fatto un certificato per calo ponderale per stress lavorativo. Avrebbe voluto darle quindici giorni, ma lei ha accettato solo una settimana, aveva paura che non la avrebbero più fatta lavorare. Dopo la settimana, non era più nei turni, il primario le ha proposto Cles, che avrebbe aperto solo a maggio, Sara lo ha visto come un demansionamento».

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    Perché si era trasferita a Trento?

    «Era brava. Aveva fatto un concorso a Ravenna, uno a Trento, era stata presa in entrambi. Scelse Trento perché il primario di Cles, sapendo che aveva lavorato in un centro di Pma (procreazione medicalmente assistita), le aveva detto che sarebbe andata a volte ad Arco e che lui voleva aprire un centro PMA a Cles. Il giorno prima che prendesse servizio, le è stato detto che avrebbe lavorato a Trento, a 40 chilometri. Questo impediva di stringere amicizie, era sola, aveva preso un gattino, ma poi è stata costretta a trovargli una famiglia. Faceva turni anche di dodici ore, non poteva occuparsene. Aveva un forte senso del dovere, era molto rispettosa della divisa, non si lamentava, dava il massimo e continuava ad alzare l'asticella. Credeva che fosse sua la colpa di ciò che accadeva».

     

     E quando il 4 marzo non le ha risposto al telefono?

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     «Ho capito subito. L'avevo vista, era un'altra persona. La sera prima, alle 20.30, mi aveva telefonato. Si era dimessa. Le ho chiesto di tornare a casa, ma lei ha risposto che voleva rimanere ancora un po' a Cles per occuparsi di utenze e simili».

     

    Dopo la scomparsa, cosa ha fatto?

     «Ho cercato risposte tra chi aveva lavorato in ospedale. Alcune storie erano simili alla sua. Bisogna indagare. Sara non è un caso unico. Mi auguro che i dirigenti aziendali facciano ciò che devono. Così, politica e magistratura. Qualcuno che prima aveva paura di farlo, ora racconta. Il primario è sempre lì. Noi non abbiamo ricevuto neanche una telefonata dall'ospedale. Mai».

     

     Cosa pensa sia successo quel giorno?

    «Mi sarei aggrappata a qualunque indizio, ma non c'è nulla che faccia pensare a una fuga. I cani hanno segnalato due punti, uno nel lago. Cercheremo Sara fino a quando non sarà trovata. E spero che ciò che le è accaduto possa dare la forza ad altri di parlare».

     

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     Cosa vi aspettate?

    «Una presa di posizione dell'azienda ospedaliera. Spero che la verità venga fuori e che si faccia qualcosa per chi lavora in quell'ospedale. Confido nella magistratura. Sono credente, ho fede nella giustizia divina, so che ci sarà, ma vorrei anche quella terrena. Ci sono tante risposte da dare». 

     

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