Giuseppe Legato per "La Stampa"
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«Ho sbagliato lo so, ho abusato di mia figlia minorenne. Sto scontando la mia giusta pena, ma loro sono stati delle bestie. Quando sono arrivato in carcere mi hanno obbligato a consegnare gli atti con cui la magistratura mi accusava. Hanno iniziato a leggerli di fronte a tutti, ripetevano ad alta voce i passaggi della mia confessione al magistrato. Ho sentito un disagio fortissimo, mi sono vergognato. Ho implorato che si fermassero, ma loro niente, continuavano. Dicevano: da qui non uscirai vivo».
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Diego S. è un nome in un lungo elenco di vittime di violenti pestaggi nel carcere di Torino. Torture per il pm Francesco Pelosi titolare dell'inchiesta ormai pronta ad arrivare nelle aule giudiziarie.
Le vittime agli atti sono undici. A Diego sono entrati in cella di notte: gli hanno staccato le mensoline sul muro, gettato detersivo da piatti sulle lenzuola. Poi lo hanno portato in una saletta «tra la quinta e la sesta sezione».
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Molti detenuti lo sanno - e lo hanno raccontato - che lì, per loro, le cose si mettevano male. «Sentivamo le urla di dolore, i carcerati gridavano, chiedevano aiuto». Diego aveva presentato una denuncia, l'ha ritirata. Poi la storia è venuta fuori lo stesso.
Botte, umiliazioni, pugni, pestaggi nella casa circondariale Lorusso e Cutugno tra il 2017 e il 2019. «Trattamenti degradanti dell'umanità» scrive la procura nell'atto d'accusa. Una sequela «di brutalità» venute alla luce grazie a due donne.
la garante dei detenuti monica gallo
Una, la garante dei detenuti Monica Gallo, l'altra la ex vicedirettrice del carcere di Torino Francesca D'Aquino. La prima si presenta in procura il 3 dicembre 2018 e racconta ciò che le hanno confidato i detenuti. L'altra, mesi prima, aveva ricevuto una segnalazione di violenze su un carcerato.
francesca d aquino
Ha trasmesso gli atti in procura scavalcando la consolidata (e discutibile) abitudine dentro il penitenziario di fare un'indagine interna e chiudere tutto senza fughe di notizie. Così, tra loro. Un giovane difeso dal legale Domenico Peila racconterà altro: «La notte del 30 aprile 2019 mi sono sentito male, mi sono accasciato dentro la cella. Sono arrivati gli agenti, quella che noi conosciamo come la squadra dei picchiatori. Dicevano: devi morire qui pezzo di merda. Il giorno dopo, alle 14,30 mi hanno convocato in una stanzetta. Uno mi ha assestato un calcio alle gambe. Sono caduto, gli altri mi colpivano con gli stivali allo sterno».
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Alle «perquisizioni punitive» si aggiunge il cosiddetto «battesimo per i nuovi giunti». Una pratica macabra: «Quando sono arrivato mi hanno portato ammanettato al casellario. Mi hanno chiesto di spogliarmi, ho tolto tutto tranne le mutande. In 4 allora hanno indossato dei guanti, mi hanno sbattuto per terra e mi hanno strappato gli slip di dosso. Ho sbattuto la faccia contro il pavimento e mi sono spaccato un dente, mi è caduto. L'ho nascosto in cella», ha detto piangendo una vittima di fronte al magistrato.
Un'altra ha raccontato: «Hanno cominciato a colpirmi con schiaffi, pugni e calci. In particolare mi dicevano di salire le scale e mentre le affrontavo gli agenti da dietro mi colpivano con schiaffi pugni e calci. E ridevano».
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Altri carcerati hanno raccontato di essere «stati feriti in fronte con il ferro usato per la battitura delle sbarre». Altri ancora costretti a ripetere davanti a tutti: «Sono un pedofilo di merda». Ancora: «A un compagno di sezione - ha raccontato un detenuto - lo hanno ammanettato e bloccato a terra. Era in attesa di fare il Tso. Lo hanno colpito con calci allo sterno e mentre lo facevano, ridevano».
La versione è stata confermata dalla vittima convocata in procura. Il comune denominatore dei bersagli di questa «squadretta» composta da 6-7 persone «avvezze a comportamenti di questo tenore violento», alle quali a rimorchio si univano altri agenti, è quella di prendere di mira i detenuti per reati a sfondo sessuale.
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Scrive la procura: «Si tratta di soggetti condannati o in stato di custodia cautelare per quei reati che secondo la legge non scritta del carcere suscitano una maggiore riprovazione sociale e pertanto richiedono nell'ottica deviata di quella legge non scritta una punizione ulteriore rispetto a quella prevista dalla legge.
Quello che colpisce all'esito dell'esame degli elementi probatori emersi nel presente procedimento è come queste spedizioni punitive non siano state opera di altri detenuti bensì di agenti di Polizia Penitenziaria e cioè di quelle persone che all'interno del carcere rappresentano lo Stato».
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Due di loro erano già finiti nei guai: condannati a marzo 2017 in Cassazione per abuso di autorità nei confronti di altri detenuti nel carcere di Palermo. Ma erano ancora in servizio. E non avevano perso «la riprovevole abitudine», si legge agli atti. Si vantavano al telefono con le fidanzate: «Oggi ci siamo divertiti, tipo Israele anni Quaranta». Il senso viene colto subito dalla compagna: «Vi siete divertiti a menà?». Silenzio.
Ma quando esce la notizia sui giornali - e le intercettazioni sono ancora attive sui telefoni degli indagati - ciò che colpisce sono i commenti: «Non doveva uscire. Doveva rimanere qui dentro e non trapelare all'esterno», dice un agente. E il collega: «Il comandante ci aveva detto di stare tranquilli, che era tutto a posto...».
L'ex comandante della polizia penitenziaria Giovanni Battista Alberotanza è indagato in questa inchiesta. Anche per l'ex direttore Domenico Minervini è stato chiesto il rinvio a giudizio: favoreggiamento e omissione di denuncia. Poche ore dopo la discovery degli atti il capo del Dap Bernardo Petralia li ha rimossi entrambi.