Antonio Iovane per “il Venerdì di Repubblica”
giorgio gaber sandro luporini
Il complesso residenziale si trova all'altezza del porto, dove si dirama il canale che una stagione fiacca di piogge ha sedato. In un piccolo appartamento in penombra stipato di libri vive Sandro Luporini, 92 anni di cui un terzo trascorso come altra metà del Signor G. Siede in poltrona, jeans, camicia a quadri e barba bianca dei venerati maestri - anche se sull'importanza nel tempo del teatro canzone coltiva qualche dubbio.
«I ragazzi di oggi non ci conoscono, quelli della tua generazione sì», dice al giornalista quarantottenne. Luporini preferirebbe essere ricordato piuttosto per i suoi dipinti, se non fosse per la parentesi trentennale di Far finta di essere sani, Polli d'allevamento, La mia generazione ha perso e un'altra quindicina di spettacoli che hanno raccontato la storia d'Italia dal movimento del '68 al riflusso fino al berlusconismo.
Proprio in queste settimane Viareggio celebra il pittore del movimento della Metacosa con una esposizione allestita fino all'8 gennaio alla Galleria d'arte moderna e contemporanea "Lorenzo Viani". «È una mostra grossissima con 70-80 quadri», s' illumina Luporini. Ma se siamo qui a ripercorrere sigaretta dopo sigaretta la sua vita artistica con Giorgio Gaber - il primo gennaio saranno vent' anni dalla sua morte - è perché la carriera dell'autore di testi ha impallato, per dirla col linguaggio teatrale, quella pittorica.
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«Con Giorgio era un continuo parlare, parlare, parlare. C'era sempre della roba da masticare. Ora, anche con gli amici, discuto poco, sono un po' ritirato a dormire e basta».
Immagino i litigi
«Quando convertiva qualcosa col metro dell'ottimismo io mi incazzavo, ma non si litigava. Per esempio mi ha cambiato il finale di Non insegnate ai bambini. Io avevo scritto "Ma se proprio volete insegnate soltanto il silenzio e l'assenza". Giorgio mi disse che gli sembrava troppo disastroso e pessimistico e lo sostituì con "Raccontategli il sogno di un'antica speranza"».
Da chi veniva la prima idea per uno spettacolo?
«Da me. Io ero l'autore del testo e quello che mi passava per la testa lo scrivevo. Naturalmente era il frutto delle nostre lunghissime conversazioni. Solo una volta è venuta prima la musica del testo, quando ho scritto Si può. Me la son cavata, ma si fa fatica a scrivere per la musica già fatta».
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Quale canzone considera la più riuscita?
«Il dilemma perché sono un dilemmista. È la canzone più bella che abbiamo scritto anche se poco commerciale».
Tanti successi ma anche tanti attacchi. Nel 1980, mentre tutti celebravano Aldo Moro, ucciso due anni prima dalle Br, lei se n'è uscito con Io se fossi Dio: quattordici minuti di invettiva violentissima...
«L'ho scritta in mezz' ora. C'era una rabbia anarcoide che in me è sempre stata forte e che lì avevo rivolto contro tutto e tutti: giornalisti, radicali, socialisti, Dc, Pci».
Nella canzone scriveva che "Aldo Moro resta ancora quella faccia che era", e non si trattava di un complimento.
«Devo dire la verità: pensavo che mi avrebbero messo in galera. Ma la maggior parte della gente, soprattutto giovani, l'ha accettata come un vangelo».
Ne sembra quasi deluso.
«No, no, mica ci tenevo ad andare in galera».
La soddisfazione più grande?
«Vedere che la generazione del '68 apprezzava certe nostre osservazioni. Mi sentivo molto vicino a loro».
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Però poi avete deciso di prendere le distanze dal Movimento: nel 1978, quando Gaber cantava Quando è moda è moda, che segna la fine dell'idillio con la generazione del '68, sul palco pioveva di tutto. È stata la canzone per la quale siete stati più attaccati?
«Forse sì. Ma c'era stato un rilassamento rispetto a quegli ideali. Per me gli anni 80, che erano dietro l'angolo, sono proprio brutti».
È pentito di qualche canzone?
«Sì. La marcia dei colitici. Sono un po' rimette del cazzo, una specie di bravura tecnica quasi alla Mogol. Non mi piace».
Non le piace neanche Mogol, quindi?
sandro luporini
«Questo non posso dirlo, Mogol ha fatto un sacco di canzoni di successo e tecnicamente era bravo. Poi bisogna anche considerare che lui scriveva su musica già fatta. Nel mio caso era più facile».
Altri pentimenti?
«La libertà. Mi son pentito molto per quel "libertà è partecipazione". Ricordo che sentii, in periodo craxiano, una camionetta che faceva propaganda elettorale e che diceva "Andate a votare!", e come sottofondo c'era quella nostra canzone.
Allora pensai: porca miseria, mi son spiegato male. La libertà è stata interpretata come dire "andate a votare", ma io nemmeno ci andavo a votare, figuriamoci. Avrei dovuto scrivere "la libertà è spazio d'incidenza". Se tu puoi incidere nel mondo hai una libertà che ha senso. Solo che in una canzone scrivere "libertà è spazio d'incidenza" suona malissimo. Oddio, come metrica ci sta pure...».
Quindi la libertà non è partecipazione.
«No».
Si è mangiato le mani tutta la vita per quella strofa.
«Tutta la vita no, ma da un bel po' in avanti sì».
Altri pentimenti?
«Destra/sinistra conformista. Sembrerebbe quasi che la canzone voglia dire che non ha senso parlare di destra e sinistra, e invece oggi come oggi è la cosa che ha più senso di tutto».
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Ora a votare ci va?
«Era un po' che non ci andavo, alle ultime ho votato Sinistra Italiana. Non essendoci più la sinistra, mi devo accontentare di quello che c'è. Sono ancora compagno».
E di questo governo cosa pensa?
Ride. «Non ne penso».
È tra quelli che ritiene che Giorgia Meloni sia davvero fascista?
«Profondamente. Anche quelli che ha messo guardi Ignazio La Russa, era un fascistone pazzesco».
Questo presente potrebbe ispirare uno spettacolo di Gaber e Luporini?
«Sì. Il tema potrebbe essere la difficoltà di toccare il fondo».
Ascolta musica?
«No. Mi ha rotto i coglioni tutta la vita, non ci capisco niente».
Però negli anni 70 ascoltavate i cantautori. Chi amava di più?
«Luigi Tenco. Ma mi piacevano molto anche Guccini, Battiato».
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De André?
«Sì, ma non l'ho mai conosciuto, Guccini e Battiato li ho conosciuti bene».
A più di cinquant' anni dall'esordio, ha capito cos' è che convinceva il pubblico a seguirvi?
«Credo il dissenso. Molta gente restava in silenzio ma non sopportava certe cose e si sentiva rappresentata dalle nostre canzoni: sentirsele dire era una cosa gradita».
Come autore di testi, non si vedrebbe bene in un manuale scolastico?
«Mi vien da ridere».
Cosa le manca di più di Gaber?
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«Quando scrivevamo le nostre cose ci divertivamo. Mi manca il divertimento».