Marco Molendini per Dagospia
amadeus
Il Daniele Piombi del ventunesimo secolo, argonauta della banalità, cerimoniere della canzone che non c’è (ma che importa), giocoliere dell’aggettivo scontato, che in mancanza di quid si appoggia al lucicchio delle sue giacche e al sostegno dell’amico che il quid ce l’ha, c’è l’ha fatta di nuovo, al terzo tentativo.
Ce l’ha fatta a radunare undici milioni di guardoni festivalieri e, a questo punto, nulla impedisce che ce la possa fare per il quarto, quinto e così via. Il fatto è che Amadeus è perfetto per Sanremo, è come l’acqua che scivola sul vetro e lascia trasparire il miracolo che non c’è.
Il Festivalone è un mistero e l’unica soluzione per spiegarlo aveva provato a darla un’antica sigla (a proposito, quella nuova è davvero brutta) che cantava “perché Sanremo è Sanremo”. E lí si chiude. Poi si può stare a chiacchierare sulla singola edizione, sulla singola serata. Ma che altro si può dire su una maratona insensata che si autodefinisce Festival della canzone e dura quattro ore e mezza a sera, quando va bene (270 minuti), con lo scopo dichiarato di far ascoltare, come è successo ieri sera, 12 nuove canzoni, una ogni 22 minuti? Che devono fare quei 12 cantanti se non inventarsi qualcosa per farsi notare?
blanco e mahmood
Le canzoni sono quello che sono, riff banali, piccole invenzioni, grandi furti, molte nenie (stile dominante dell’italian song), vecchie glorie, nuove glorie sconosciute ai più (anche se Daniele Amadeus Piombi lancia imperturbabile cataloghi di dischi d’oro, di platino, di diamante conquistati), aspiranti glorie che si sentono grandi glorie. Così si vestono, si travestono, sì tatuano, si riempiono di orecchini e kajal, giocano sulle trasparenze, sulle scollature, sulle parrucche. Insomma, fanmo ammuina.
amadeus fiorello
Cosa resta da dire? Fanno tenerezza il ragazzo Morandi che fa il Jovanotto, Ranieri che dopo aver perduto l’amore perde per strada l’intonazione, Achille Lauro che si sente Jim Morrison, si tocca il pacco e si autobattezza per dare peso a una canzone che non c’è, Michele Bravi che sembra arruolato dalla Famiglia Addams, la coppia (già data per vincitrice) Mahmood-Blanco, Al Bano e Romina dei tempi nostri e del sesso fluido, che si cantano “Ho sognato di volare con te su una bici di diamanti”, eccetera, eccetera. Per fortuna sul palco ha svolazzato Fiorello, tornato per la terza volta consecutiva, ma con una bella differenza: stavolta è libero e leggero, è solo ospite volontario che fa quello che vuole, viene quando vuole, punge e scappa, promette di non tornare, ma forse torna.
ornella muti
E in questa situazione Fiorello dà il meglio del suo notevole talento da intrattenitore e dà una mano robusta all’amico sperduto fra piccoli viaggi sul trenino e il difficile compito di spalleggiare una first lady imbalsamata (ma che cosa le è accaduto ai denti?) e incapace di un guizzo. A proposito di guizzi mancati e di povertà lessicale, esemplare il loro dialogo sui partner dell’attrice: a proposito, e Celentano?. E così il Festival è andato, mettendo sul piatto anche la gloria raccolta coi Maneskin, ma soprattutto confermando di essere luogo fuori dal mondo e dalla realtà. E forse per questo piace o quanto meno spinge a guardarlo, è la stesa sensazione di irresistibile attrazione di quando si guarda il vuoto, non c’è nulla da guardare ma non si può fare a meno di guardarlo.
michele bravi
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