Enzo Gentile per Oggi - www.oggi.it
fabrizio de andre mauro pagani
Un disco di 40 anni fa ha poche alternative, e bassissime aspettative di vita, ormai: facile che sia stato dimenticato, mentre nella migliore delle ipotesi sarà diventato un oggetto di culto per un manipolo di nostalgici collezionisti. C’è però la variante che riguarda i capolavori: Creuza de ma, uscito nella primavera del 1984 dalla fusione tra la voce di Fabrizio De André e le musiche di Mauro Pagani, è infatti al centro di un ricco panorama di celebrazioni. Su tutte il ritorno dal vivo in un tour, protagonista Mauro Pagani e otto musicisti. Partenza il 21 giugno da Carrara (il 30 a Genova).
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Come si immagina Creuza de ma quarant’anni dopo? Revival o una nuova prospettiva?
«Intanto so e ricordo bene com’è nato quel progetto: De André pensava a una lingua inventata, l’ipotesi di un grammelot marinaio, ricavato da porti, sbarchi, commerci sulle sponde del Mediterraneo. Un’impresa complicata che decise poi di sostituire con il dialetto genovese, che conosceva più da vicino e da miscelare con i suoni, le arie musicali di tante cassette ricavate da Paesi lontani. Che né io né Fabrizio avevamo mai visitato: operazione in puro stile salgariano. Un romanzo d’avventure, affacciati sul mondo a captare i segnali, le vite degli altri».
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Nessun dubbio o timidezza nell’affrontare una simile sfida?
«Onestamente qualche paura c’era: De André sapeva il rischio di abbandonare il mondo di Marinella e delle sue ballate storiche, di buttarsi alle spalle i dischi un po’ country-rock realizzati con Massimo Bubola, ma aveva voglia di osare. E anche alla Ricordi, la sua casa discografica, molti temevano il disastro. Ma la sfida ci piaceva.
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Quando diventò professionista?
«Gradualmente. Avevamo un gruppo di bravi ragazzi volonterosi, i Dalton, e qualcuno a fine anni Sessanta ci aveva ascoltato, segnalando proprio me, il cantante-violinista. Franz Di Cioccio, dei Quelli, alcune hit e un buon calendario dal vivo, mi invitò a unirmi e dopo qualche tentennamento accettai. Erano i prodromi della Premiata Forneria Marconi che nel gennaio 1972 pubblicherà il disco d’esordio, Storia di un minuto».
L’accoglienza fu trionfale e l’album finirà dritto in vetta alle classifiche.
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«Il successo è un benefattore e in famiglia quella musica strana sarà ben accolta, anche grazie a un brano, Impressioni di settembre, dalle atmosfere gradite persino a mio padre. Tanti anni di gavetta al night club, ore e ore a suonare di tutto, hanno insegnato molto a quelli della mia generazione».
Eppure, nonostante la fama, anche internazionale, la permanenza nella PFM dura poco. Perché?
«Nel 1976, dopo aver suonato con grandi consensi anche negli Stati Uniti, decido di lasciare: restando in buoni rapporti con i miei compagni, sento che quella vita non fa per me. Io che ero cresciuto con il rock, il blues, il primo progressive, non mi trovavo più bene: mi sentivo schiavo di una musica con eccesso di note, e di un mondo, lo star-system, che non mi piaceva, che era minaccioso per la mia vita personale. In quegli anni mi ero anche sposato, proprio per potermi aggrappare a qualcosa di solido. Vivevo in una comune, i turni per le pulizie di casa, in cucina, toccavano anche a me».
La svolta solista coincide poi con la scoperta di una musica che esce dal solco pop-rock. Come?
«Molti hanno visto in Creuza de ma l’affermazione della world music, ma in effetti quello è il frutto di tante esperienze folk, studio delle tradizioni. Io ero famelico di suoni diversi, lontani, cercavo i dischi della collana Unesco o Chant du mond: e con pochi altri iniziavo a condividerli. La fortuna, con Fabrizio, fu di trovarci insieme, nel punto giusto».
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Nel suo curriculum ci sono tanti ingredienti: la produzione, le colonne sonore, i romanzi, anche la direzione artistica al festival di Sanremo. Cosa le hanno lasciato?
«Ho seguito la curiosità e l’istinto dell’autodidatta: le musiche per cinema, teatro e tv mi hanno permesso di evadere dalla logica dei numeri, delle mode, del mercato. Il festival di Sanremo mi ha dato modo di imparare a operare con gli artisti e i generi più diversi, nei romanzi ho raccontato di me. E continuerò a farlo, scrivendo di una saga famigliare: quella di mio nonno materno, apolide, nato a bordo di una nave che portava verso la Grecia il circo in cui lavoravano i suoi genitori».
Qual è il passaggio o l’opera di cui va più orgoglioso?
«La decisione di mollare tutto, nel punto più alto raggiunto, ai tempi della PFM. Avrei potuto resistere e suonare ancora oggi quelle stesse cose, magari divertendomi. Un po’ di incoscienza, senza soldi e un futuro sicuro: non ho mai rinnegato nulla del mio passato, ma il desiderio di andare da solo è stato più forte di tutto».
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