Elena Dusi per “la Repubblica”
LA FORZA DEL RESPIRO
È uno dei "ritmi perpetui" della vita, talmente scontato da non esser nemmeno percepito. Ma «dal ritmo del respiro dipendono molte funzioni superiori del cervello» scrive oggi un gruppo di ricercatori americani su Science. La velocità e la profondità delle inspirazioni influenzano «emozioni, attenzione, eccitazione, stress» prosegue la ricerca. Sono una sorta di freno e acceleratore del nostro stato di attivazione, ansia, voglia di esplorare e imparare, come ben sanno gli appassionati di yoga e meditazione.
LA FORZA DEL RESPIRO
«L' idea che respirare lentamente serva a calmare la mente esiste da migliaia di anni, ed è il punto di partenza di molte tecniche di rilassamento e di cura degli stati di ansia» spiega Mark Krasnow, biochimico dell' Università di Stanford, uno dei due autori principali della ricerca. «Ora abbiamo scoperto che esiste un collegamento potente e diretto fra i neuroni che regolano il respiro e il resto del cervello. Questo collegamento ha una grossa influenza sul nostro stato di attenzione e attivazione».
Il principio che la meditazione sfrutta da millenni - respirare piano calma la mente - è vero anche al contrario: respirare velocemente mette paura. «La relazione funziona nelle due direzioni » conferma Krasnow. «Il respiro rapido, irregolare e affaticato è un possibile meccanismo di difesa per attivarci di fronte a situazioni di pericolo» scrivono i ricercatori, provenienti, oltre che da Stanford, anche dalle università della California a San Francisco e di Chicago.
LA FORZA DEL RESPIRO
Il loro passo avanti è stato osservare materialmente il "ponte" attraverso cui l'atto materiale del respirare regola le emozioni di alcuni topolini. Il punto di partenza della ricerca è che nel cervello esiste una sorta di "centralina del respiro", scoperta 25 anni fa.
In gergo tecnico si chiama "complesso pre-Bötzinger" ed «è una sorta di pacemaker dei polmoni» chiarisce Krasnow. I suoi neuroni danno l'impulso iniziale ai muscoli respiratori che fanno spalancare il petto, sia volontariamente che inconsciamente, in base soprattutto ai valori di ossigeno e anidride carbonica del sangue.
Quel che la ricerca americana ha scoperto oggi è che esiste un collegamento fra la centralina del respiro e quella dell'attenzione e dello stress: il locus ceruleus, un' altra delle regioni profonde e primitive del nostro organo del pensiero, che si trova nel tronco encefalico. «È un' area dalla quale dipende l'attività generale del resto del cervello» precisa il ricercatore di Stanford, che ammette: «Non ho mai praticato la meditazione, ma dopo aver lavorato a questo esperimento ci sto pensando seriamente».
respirazione diaframmatica
Quel che è successo ai topolini dell' esperimento dopo la disattivazione della "centralina del respiro" (in realtà solo di un sottogruppo di circa 350 neuroni, quelli direttamente collegati con il locus ceruleus) è stato assai peculiare. «Sono tutti sopravvissuti bene» si legge nello studio. «Ma i loro respiri tendevano a essere più lenti» e «i momenti di calma più lunghi».
Si è ridotta «la tendenza a esplorare nuovi ambienti» ed è «triplicato il tempo passato con gli altri in attività di grooming», cioè di accudimento e cura del pelo. Nel cervello sono aumentate le onde lente, tipiche del sonno, a discapito di quelle theta, che nei topi vengono generate durante il movimento, l'apprendimento e in generale negli stati di allerta.
respiro
Nelle loro gabbie, questi animali privati dell'"acceleratore del respiro" sembravano insomma i compagni di Ulisse nel paese dei lotofagi, in preda a un' atarassia forse piacevole e tranquilla ma di certo incompatibile con la sopravvivenza. E sul motivo per cui, dal punto di vista dell' evoluzione, al ritmo del respiro sia stato affidato lo stato di attivazione del cervello c' è ancora molto da capire.
«Un' ipotesi - suggerisce Krasnow - è che poiché i polmoni sono così importanti per la vita, si sia sviluppato un meccanismo che tenga il cervello in allerta quando c' è un problema, ad esempio il pericolo di soffocare ». Anche se non si è mai arrivati a conclusioni certe, un difetto del complesso pre-Bötzinger è fra gli imputati della cosiddetta "morte in culla", il drammatico (e per fortuna raro) fenomeno del decesso dei neonati durante il sonno.