Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport
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Non gli ha rubato il sonno Ronaldo. Come avrebbe potuto? Oscar Washington Tabarez è l’indispensabile scandalo in questo mondiale di strepitosa bellezza. E’ il tocco poetico dentro una prosa che inchioda ogni giorno milioni di persone, al di là della patria in campo.
Dove ogni partita è un romanzo a sé e ogni romanzo una sfilata di attori che scoppiano di salute e bruciano di smanie, il delirio emotivo e motorio della folla, tra tribuna e campo, dove tutti cantano, esultano, rotolano, corrono, saltano, sbraitano, piangono e ridono, dove chi si ferma è perduto e dove la copertina è un anziano signore malinconico ma non triste, che si muove a fatica con l’aiuto della sua unica stampella, perché due risulterebbero troppe e certo patetiche agli occhi di questo mondo euforico e un po’ fuori di testa.
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El Maestro di Montevideo, così lo chiamano, a 71 anni il più vecchio allenatore del mondiale, soffre da tempo di una rara malattia degenerativa che colpisce il sistema nervoso e lo porterà prima o poi alla paralisi totale. Oscar lo sa e ha scelto di non saperlo. Oscar è lo scandalo della malattia mostrata in mondovisione dentro uno show che è l’apoteosi della salute. Il paradosso di un condottiero zoppo dalle cui labbra pendono una ventina di ragazzi milionari e palestrati.
Tabarez è l’opposto di Sampaoli. E’ il totem venerato anche quando se ne sta acquattato in panca, tenuto lì fermo, costretto dalla bestia che ne sta facendo scempio. Un gigante a fronte dello gnomo peripatetico. E molto patetico. Il trafelato Sampaoli e il suo ignoratissimo andare su e giù davanti alla panchina come un cocker che finge di appassionarsi all’osso che gli è stato sottratto (infelice scimmiottatura di quel genio meravigliosamente patologico e pure lui ipercinetico di Bielsa). Lo dicono eroico, Tabarez, perché ha scelto di continuare a fare il suo mestiere, nonostante la malattia. Non è così.
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El maestro non aveva scelta. Perché sa che la Celeste è la sua droga. Perché vivere non è possibile senza una droga qualsiasi, che ti aiuti a trasfigurare la realtà, quando la realtà è una pessima figura. Quando non si hanno più l’età e le gambe per correre dietro a una donna, ma dietro a Cavani che segna sì. Perché El Matador e compagni sono l’estensione felice del suo corpo malato. Perché, solo grazie a loro, gli capita per pochi istanti di dimenticare, che quella non è la stampella di un uomo claudicante, ma il bastone di un rabdomante che indica ai suoi la strada dell’acqua e del gol. Tutti loro lo sanno bene, Godin e compagni. Che sono lì, che giocano e vincono per una nazione intera e per un uomo di cui hanno scelto di essere le sue gambe perdute, la sua salute e la sua giovinezza perdute. Lo chiamano da sempre Maestro, Tabarez, anche per questo. Per quello che infonde. La conferma più estrema che un grande allenatore è quello cui i giocatori sentono di dedicare le loro imprese.
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Non si deve mai beatificare un uomo. A meno di non beatificare anche le sue magagne e l’uomo Tabarez ha, certo, le sue. Ma qui, in questo mese di calcio folle e appassionato, lui è l’icona. Almeno quanto l’invasato Maradona che dimentica di essere Maradona. Sembra di ascoltare la soluzione dei mali del mondo quando un gruppo di giovani guerrieri e un vecchio malato più guerriero di loro mettono insieme le loro forze per dare felicità a se stessi e a una nazione intera. E ora anche a milioni di tifosi senza passaporto uruguagio.
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