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    “HO IL CUORE SPEZZATO DA QUANDO SI È AMMALATO, PENSARLO SENZA LE SUE FACOLTÀ INTELLETTUALI ERA UN DOLORE” – L’ADDIO DI MORGAN A FRANCO BATTIATO: “SONO ANDATO A TROVARLO L’ANNO SCORSO, GLI HO SUONATO AL PIANOFORTE "L’ANIMALE" E GLI HO DETTO “QUESTA È UNA CANZONE DI LIGABUE”. LUI HA RISO. AUTOIRONICO FINO ALLA FINE" - "LA MEDITAZIONE? A VOLTE ERA UNA SEMPLICE PENNICHELLA" -  VIDEO


     
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    Andrea Laffranchi per corriere.it

     

    Il dolore di Morgan per la morte di Battiato non è soltanto quello di oggi. «Quando la malattia aveva iniziato a farsi sentire scrissi “Battiato mi spezzi il cuore”, un brano che ovviamente non ho mai pubblicato. Sono affranto, ho il cuore spezzato, ma da allora. Pensarlo senza le sue facoltà intellettuali era un dolore. Era come un mandala spazzato via dal vento. Mi sono svegliato tante volte nel cuore della notte piangendo al pensiero».

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    Come ha scoperto la musica di Franco Battiato?

    «Da piccolo ascoltando con papà La voce del padrone. Arrivavano quelle parole strane, un vocabolario mai sentito prima, immagini e concetti inediti... “una vecchia bretone” non è qualcosa che è nella mente di chiunque pensi a come potrebbero essere le parole di una canzone, non è un’alba chiara o una lacrima sul viso. Era il surrealismo di Breton che arrivava nella canzone.

     

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    Fece entrare l’intelligenza nel pop. Era strano non nel senso che non si capisce ma nel senso di unico, originale. Fu il primo album a superare il milione di copie vendute, ma nonostante il successo lui si spostò a fare cose diverse, non ha mai usato lo stampino. faceva dialogare la canzonetta con la musica colta, ha abbattuto i muri fra musica alta e musica bassa».

     

    La conoscenza personale quando è arrivata?

    «Al Primo Maggio del 1995, apprezzava i Bluvertigo e ci volle conoscere. Ci siamo subito allineati, avrebbe detto lui. Era come Socrate nella conversazione, un maestro. Da lì in poi ci siamo frequentati moltissimo».

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    Un momento privato che non scorderà mai?

    «Un giorno nel salotto di casa sua a Milano. Aveva delle vetrate lavorate come quelle delle cattedrali, la luce filtrava sul tavolino, noi due seduti in poltrona in silenzio. Dopo mezz’ora lui dice: “ti piace questo pomeriggio?”. Era la sua nobiltà d’animo. Era staccato dalle cose materiali, dalla corsa al profitto, aveva una purezza quasi infantile. In studio gli dicevi “bello questo synth” e lui te lo regalava. Andavo spesso a Milo in Sicilia da lui e ricordo che non amava molto il fatto che Lucio Dalla fosse vicino di casa perché avevano stili di vita opposti. Una volta ci andai con Asia incinta. Leggevamo Musil ad alta voce, raccoglievamo more di gelso, suonavamo Le scene infantili di Schumann per preparare la nascita. Asia si innamorò di un suo dipinto con un rinoceronte, lui lo staccò dal muro e glielo regalò».

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    Amicizia, tanta musica, ma mai un duetto...

    «Era una collaborazione spontanea, non commerciale. Ci divertivamo a fare musica. Non gli chiesi mai un feat, non mi sentivo sul suo stesso piano, mi sembrava offensivo. Ricordo tutta la lavorazione di “Gommalacca” in cui mi chiamò per mettere assieme un gruppo di musicisti e mi fece suonare il basso... le giornate passate con lui e Manlio Sgalambro sono stati i momenti più importanti della mia vita culturale, conversazioni profonde ma anche cazzeggio. Poi lui venne a Montreux dove registravamo “Zero” e fece delle incursioni vocali. Rimpiango tutta la seconda metà degli anni 90 perché so che non ritorneranno più: per dirla come lui sono “orizzonti perduti”».

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    L’insegnamento di vita?

    «Mi ha insegnato l’ironia e la capacità di essere critico, nel senso di saper distinguere il bene dal male. e poi aveva un’autoironia fuori dal comune. Raccontava aneddoti autodistruttivi come quello in cui ricordava un festival in Iran. Salì sul palco di uno stadio pieno, chiuse gli occhi e la sua sperimentazione allora era concentrata sul volume: partì da zero per salire lentamente, arrivato a 10 aprì gli occhi e lo stadio si era svuotato».

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    Le ha mai proposto di meditare insieme?

    «Mi ha coinvolto in tutto: arte, musica, confidenze private... Ma la meditazione era un suo fatto intimo e privato. Un momento che ritagliava per sé e in cui non voleva essere disturbato. E che a volte era anche una semplice pennichella».

     

    L’ultimo ricordo?

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    «L’anno scorso. Sono andato a trovarlo, gli ho suonato al pianoforte L’animale e gli ho detto “questa è una canzone di Ligabue”. Lui ha riso. Autoironico fino alla fine. L’ultimo ricordo lucido è del 2014, lo incontrai a un concerto di Cacciapaglia, una serata di musica e umorismo. Poi ha iniziato a perdere la connessione con le parole, ha smesso di fare concerti perché non ricordava più le parole, la cosa più terribile per uno come lui».

    Il valore artistico di Battiato?

    «Moravia disse di Pasolini che uno così nasceva ogni 300 anni. Lo stesso disco io oggi di Battiato: abbiamo perso un pilastro del dibattito culturale».

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