Giampiero Mughini per Dagospia
enrico varriale
Caro Dago, Enrico Varriale è un giornalista televisivo molto noto al grande pubblico e dunque è del tutto ovvio che i mass-media ci inzuppino il pane su questa sua allarmante vicenda di una donna (con cui lui aveva un tormentato rapporto sentimentale) che lo accusa di averla scaraventata contro il muro, di averla stretta alla gola, di averla colpita anche con dei calci. Bruttissima vicenda personale ancor prima che penale, ovvio.
Ho detto vicenda personale a marcare quanto sia difficile per la legge e per i suoi codici entrare in questo reame, di quel che accade ogni volta tra gli esseri umani, in particolare tra gli uomini e le donne.
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Lo dico dopo aver letto l’intervista che Varriale ha rilasciato a Marco Mensurati sulla “Repubblica” di oggi. Un’intervista dove ogni parola, e stavo per dire ogni virgola, eccome se aveva il suo peso. Varriale ammette le sue colpe diciamo così fisiche, d’esser andato di forza contro una donna, ma nega di essere “un mostro”. In linea di principio lui è della linea che “le donne non si battono neppure con un fiore”, la linea che per quanto mi riguarda sta all’articolo uno della mia Costituzione personale.
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E con tutto ciò racconta la dinamica - personale, personalissima - del suo rapporto con questa donna che lo accusa pesantemente. Una donna cui lui (un single perfettamente libero sentimentalmente) teneva molto, non voleva che fosse un rapporto fugace ed estemporaneo. Si incontravano e si scontravano. Lei c’era, e poi in certi momenti non c’era più. Lui era cortese e cavaliere, in altri momenti lo era di meno. C’erano tra loro parole azzeccate e parole che li mettevano in conflitto. Tensione dopo tensione arrivano a un momento deprecabile dove lui effettivamente le mette le mani addosso e se ne approfitta del fatto che nella media un uomo è più forte di una donna. Starà ai giudici capire la sequenza dei loro atti vicendevoli, soppesarne la natura, decidere. Non credo sia facile. Ciò che è delle persone è intriso di sfumature, ammette raramente il bianco e nero.
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Al tempo della mia giovinezza ci fu un caso clamoroso a Milano. Un professore di liceo rinomatissimo a sinistra venne accusato da un sua fidanzata/amica di averla stuprata a casa sua. Lui andò in cella. Il giornale per cui lavoravo mi chiese di occuparmi della faccenda. Chiamai la notissima avvocata che tutelava la ragazza.
Le chiesi com’è che, per essere stata la violenza di un uomo su una donna, i collant della ragazza risultavano intatti. Mi disse che la ragazza aveva avuto paura che se avesse tentato di difendersi le cose per lei sarebbero andate ancor peggio. Il professore di liceo è stato poi assolto. L’ho incontrato molti anni, nella casa milanese del mio amico Alfio Caruso. Perdonatemi, ma non ho avuto dubbi che di violenza in quel tormentato rapporto tra un ragazzo e una ragazza di trent’anni prima di violenza non ce ne fosse stata. C’era stato molto altro, di tanto più complesso, su cui la legge ha difficoltà a intervenire, a sentenziare.
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E’ difficile metter becco nei rapporti fra uomini e donne. Trenta e passa anni fa venne a casa mia una donna che conoscevo da tempo. Eravamo amici. Lei era single, io ero assolutamente single. Cenammo l’uno di fronte all’altro e poi andammo in un’altra stanza di casa mia, lei seduta su una poltrona, io seduto sulla poltrona di fronte. Ci conoscevamo da tempo, eravamo amici, eravamo single entrambi, le parole tra noi erano calde. A un certo punto io mi avvicinai di dieci o quindici centimetri verso la sua bocca con l’intenzione di baciarla. Lei alzò un dito a opporsi, non più di un dito. Immediatamente io mi ritrassi. Parlammo ancora a lungo.
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Dopo di che l’accompagnai alla sua macchina posteggiata lì vicino, la mano sulla sua spalla, e la baciai in fronte nel salutarla. Qualche anno dopo, mentre stavo parlando con una che lavorava nello stesso giornale in cui avevo lavorato io e la mia amica di cui ho detto (la chiamerò “Tizia”), lei mi disse che “Tizia” le aveva confidato che io con lei ci avevo “provato”.
Usò questo termine ignobile, “provato”. Una tale ingiuria, una tale bestemmia, una tale porcheria che lei dopo una serata che era stata interamente nostra e soltanto nostra, nella quale non era avvenuto nulla di efferato nei confronti della sua femminilità, lei si “vendesse” al primo venuto che io l’avevo importunata. Ricordo che a quel racconto ne diventai verde di rabbia, di una tale menzogna, di una tale ingiuria, di una tale volgarità. E ancor oggi ne fremo di rabbia. “Tizia” non l’ho mai più reincontrata. Per sua fortuna?
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GIAMPIERO MUGHINI
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