Mario Sconcerti per il “Corriere della Sera”
paolo rossi antonio cabrini
È molto difficile ricordare oggi Italia-Brasile di quarant' anni fa, perché il calcio non ha memoria. È quasi soltanto cronaca di parte, è un cammino dentro un eterno presente. Nel 1982 eravamo un Paese abbastanza sconvolto. Venivamo dagli anni di piombo, l'inflazione era più alta di adesso, non esisteva una destra ufficiale di governo né una grande sinistra accettata. Non era chiaro sapere chi eravamo.
La televisione aveva affermato il Mondiale come evento planetario, troppo grande per noi. Era lontano dalla nostra realtà. I c.t. non avevano allenato in serie A, facevano parte di uno staff federale dove il primo di loro portava dentro gli altri perché li conosceva e si fidava. Non c'era un passato che affermava. Erano piccoli maestri tolti alle partite proprio per mantenerli sempre rispettabili. Non è un caso che Valcareggi, Trevisan, Maldini, Bearzot fossero tutti nati uno a un passo dall'altro, nell'estremo Nord-Est del Paese.
Non contava il talento, contava un'idea comune, un dialetto, una cultura di vita vissuta insieme.
paolo rossi antonio cabrini
Quando io e Brera lasciammo l'albergo, ci premurammo di pagare il conto. Sapevamo che quasi certamente il giorno dopo saremmo dovuti tornare in Italia e volevamo evitare la fila dell'ultima ora. Sul taxi Brera mi disse che era così convinto del risultato da aver fatto un giuramento. Se il Brasile avesse perso, lui avrebbe partecipato in agosto alla processione dei Battenti a San Zenone Po, il suo paese.
Lo aveva scritto su Repubblica , il nostro giornale di allora.
paolo rossi antonio cabrini
Io non avevo idee precise, capivo l'improbabilità dell'essere, ma ero giovane, avevo una figlia di sei mesi, avevo voglia di ascoltare l'avventura. Il campo era il Sarriá, quello dell'Espanyol. Bisogna essere vittima di un destino maldestro per nascere tifosi dell'Espanyol a Barcellona. Non c'è mai un confronto possibile.
A me sembrò beneaugurante. Eravamo nel regno dei perdenti, era troppo semplice perdere. Pensai dovesse esserci una meraviglia da qualche parte. Lo stadio era piccolo e lindo, affacciato sul campo. Si sentivano i gemiti dei giocatori e le parole dei tecnici. Il Brasile aveva quello che chiamavano il quadrilatero magico. Non era una definizione di grande fantasia, ma si avvicinava alla realtà. Giocavano a centrocampo con un due più due: in basso Falcao e Cerezo, più avanti Zico e Socrates. Ci sentivamo piccoli.
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Gli attaccanti erano Serginho e Eder a sinistra. Serginho non era un grande centravanti, poche volte il Brasile ha avuto fortuna in quel ruolo.
Non è un posto per ballerini, serve gente che regga l'urto per fare entrare i fantasisti sulla strada della porta. Noi giocavamo con Gentile-Collovati-Scirea-Cabrini in difesa, Oriali e Tardelli giocatori di massa, Conti e Antognoni a dare ordine e grazia, più Rossi e Graziani in attacco.
Non avevamo una grande fama. Avevamo fatto appena tre punti nel girone pareggiando con Polonia, Perù e Camerun. Giocando male, dando un'impressione di sfiducia e leggerezza. C'era un imputato, Paolo Rossi. Non segnava e non tirava in porta.
italia brasile
Girava spento per il campo, magro come un'aringa e vuoto dentro. Allora si poteva essere amici dei giocatori. Io lo ero di Rossi. Se devo ricordare Paolo mi salta sempre in mente il sorriso. È stato il più sfortunato degli uomini fortunati. Si è rotto tante volte i crociati, a 28 anni fu costretto a smettere dai dolori. È morto sfinito dalla malattia.
Però, il giorno prima del Brasile, mi aveva detto: «I Mondiali non c'entrano niente con la carriera di un giocatore, sono un miracolo. Io sono Rossi non per i gol che ho fatto nel Vicenza o che farò nella Juve, sono Rossi per i tre gol che ho fatto in Argentina quattro anni fa; capisci? Appena tre e il mondo si rovescia; se domani segno, ricomincio a vivere dentro il miracolo». Al suo secondo matrimonio, nel suo villaggio sospeso sulle colline tra Arezzo e Siena, mi raccontò della celebre storia sulla presunta omosessualità tra lui e Cabrini. Una frase innocente di un giornale li aveva trasformati in una coppia di fatto. Il silenzio stampa nacque per questa ultima goccia.
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Non avevamo capito cosa fosse ormai un Mondiale. Non c'è ironia, c'è solo realtà, anche se è finta. Una frase sbagliata, tra migliaia di cronisti, faceva in un'ora il giro del mondo. Diventava verità.
Quando il Brasile arrivò a Barcellona, Socrates ci chiese se era vero che Rossi e Cabrini erano gay. La sera delle sue seconde nozze Paolo aggiunse: allora non sai l'ultima. Io e lui, e indicò Cabrini, avemmo in quei giorni una macchia rossa sulla pelle, io sul petto e Antonio sulla schiena. Era micosi. Pareva il contagio di due amanti. E via tutti a ridere.
Al Brasile bastava un pari, a noi no. È possibile che questa sia stata la nostra fortuna. Non ricordo se giocammo bene. Dopo il primo gol di Paolo passai i minuti ad offendere il tempo che non passava. Era tardo pomeriggio, allora si dettava in diretta, io al telefono e dall'altra parte una signora paziente che registrava. Penso spesso che la vera innocenza del mio mestiere per la sua scarsa proprietà letteraria, nasca dalla necessità di avere sempre fretta, non c'era nessun modo di riflettere. Comunque Gentile marcò Zico, Oriali dava una mano su Eder e Conti era il regista laterale.
italia brasile mundial 1982
Nel mezzo Tardelli prendeva ogni metro come cercasse una meta e Antognoni era forse, nel suo ruolo, il migliore del Mondiale, anche se noi lo ignoravamo. Il Brasile pareggiò, una volta, due volte, eravamo continuamente dentro e fuori. Era epica pura, ma non lo sapevamo. Soffrivamo e basta. C'era partita, ma il Brasile esagerava. Oggi sul 2-2, forse avrebbe spento il gioco palleggiando, i mezzi giusti li aveva. Ma scelsero di voler vincere. E un ragazzo sottile, ormai oltre il miracolo, segnò anche il terzo gol.
Eravamo di nuovo in semifinale, restava solo una lunga coda. Antognoni segnò il quarto, ma l'israeliano Klein annullò per un fuorigioco che non c'era. Protestammo a lungo. Non sapevamo che il figlio di Klein era in guerra in Libano e da giorni non dava notizie di sé. Il giorno prima Klein aveva chiesto ad Artemio Franchi, presidente della commissione arbitrale, di non fargli dirigere la partita. Non aveva la tranquillità corretta.
italia brasile 1982 parata di zoff
Poi la mattina dopo arrivò un messaggio dal Libano: papà sono vivo, arbitra. L'ultimo quarto d'ora fu infernale, il Brasile stava vivendo un dramma che non capiva. Sembrava a tutti impossibile, non giocavano più il loro calcio, era come aspettassero un segno di giustizia dal cielo. Non capirono mai che la giustizia sul campo era già stata fatta. Avevano vinto i migliori. Scalfari, il direttore, ci chiamò al Sarriá. Non l'aveva mai fatto. Disse, passami Gianni. Il telefono rimase a metà strada tra me e lui, nel frastuono fu un miracolo sentire le parole. Dicevano, e ora caro Gianni, manderò fotografi e inviati per vederla in agosto alla Processione dei Battenti. Si ricordi. E Gianni sfilò a San Zenone battendosi il petto. Un altro miracolo.
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