Malcom Pagani per www.vanityfair.it
claudio caligari
In principio è solo un ragazzo con i pantaloni corti in una sala cinematografica. Gli adulti fumano e sullo schermo, mentre il sole incendia ora Roma, ora Gerusalemme, le bighe corrono e Charlton Heston dimostra di saperla lunga: «Non pensare di vincere la corsa al primo giro. Si vince all’ultimo».
CLAUDIO CALIGARI - L ODORE DELLA NOTTE
All’epoca Claudio Caligari non lo sapeva ancora e non poteva immaginare che ai primi elogi in vita, sarebbero seguiti soltanto quelli postumi. Nel 1983, per Amore Tossico, Venezia lo accolse come un re e lo stesso fece nel 2015, quando Claudio non abitava già più qui e nel rumore degli applausi per Non essere cattivo, forse, qualcuno cercava di coprire il muto silenzio di una vergogna lunga trentadue anni.
In mezzo, molte porte chiuse in faccia, un solo film, L’odore della notte: «Durissimo» racconta Valerio Mastandrea, amico, fratello, alter ego di Caligari e molto altro «tutto girato nell’oscurità, con un’atmosfera che non ho mai più ritrovato da nessuna altra parte». Degli occhiali scuri di Claudio il taciturno, delle sue ombre: «Se gli dicevi tevojobbene eri morto» ricorda sorridendo Marco Giallini, dei decenni passati a scrivere copioni bellissimi che nessuno voleva realizzare e della sofferenza che qualsiasi espressione di sé porta in dote, si occupa un magnifico documentario invitato in laguna dove verrà proiettato l’1 settembre alle 16,45 in Sala Volpi.
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Fin dal titolo, ironicamente calligariano – Se c’è un aldilà sono fottuto – il film prodotto da Kimera film e Rai Cinema, girato con rara capacità di commossa sottrazione da Simone Isola e Fausto Trombetta, è una storia d’amore e di amicizia, di curiosità e di scoperta, di emozione e rimpianto, di esclusione e tenacia.
Le foto di Caligari bambino, l’esistenza monastica: «Sapeva fare economia, sapeva vivere con poco» racconta sua madre che gli è sopravvissuta e sapeva leggerlo, anche da lontano, con rispettosa profondità: «Voleva fare cinema e quando tornava a trovarci, magari dopo una delusione, appoggiava la sua 24 ore piena di fogli sul tavolo come se tutto andasse comunque bene», la totale assenza di vacua convivialità, la consapevolezza che, proprio come giurava Edoardo Bennato, l’equilibrio fosse un’esclusiva di chi sta in disparte. «Una volta, quando vivevo ancora con Marco Risi» racconta Chicca D’Aloja «risposi al telefono e dall’altra parte, sentii una voce dire “sono Claudio Caligari”. Senza dire altro, iniziai a declamare una dopo l’altra le battute di Amore Tossico. Lui era stupito e io più di lui. L’idea che fosse proprio come me lo immaginavo e che tanti anni trascorsi a bordeggiare il microcosmo più autoreferenziale che esista, quello del cinema, non l’avessero cambiato, mi restituì l’impressione di un uomo veramente speciale».
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Claudio Caligari lo era, ma non aveva nessuna voglia di dirlo al mondo. In Se c’è un aldilà sono fottuto, più delle parole, contano i sorrisi. Quelli che si accendono sul volto di Caligari quando finalmente (grazie soprattutto all’impegno in odore di fideismo di Valerio Mastandrea e al contributo di tutti quelli che da Simone Isola a Paolo Del Brocco, da Camilla Nesbitt e Pietro Valsecchi fino alla Good films e alla Leone Group, contribuirono a sanare un’ingiustizia) si ritrovò sul suo luogo naturale, il set, per un’opera che aveva il sapore dell’impresa e dell’epitaffio, dell’omaggio al cinema che aveva amato e del lavoro collettivo, in comune, così vicino e così lontano a un’essenza politica che era evaporata quasi ovunque e quindi, a maggior ragione per quelli come Caligari, rimaneva centrale.
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«Muoio come uno stronzo e ho fatto solo tre film» diceva al suo amico Mastandrea. E in quel rendez-vous conclusivo, tra le nebbie invernali di Ostia, trasformata in apparenza fino a essere irriconoscibile da quella verista del 1983 fissata in Amore Tossico: «Tornai negli stessi luoghi anni dopo e capii che le ferite dell’eroina erano dentro le case, non c’era famiglia che non avesse avuto un morto o qualcuno che si era ammalato di Aids» annotò Caligari in un incontro pubblico con Nanni Moretti, in quel terzo film era come se ce ne fossero tantissimi altri.
I polar francesi che aveva amato in gioventù, da Sautet e Melville, Pasolini, Bresson e un’infinità di rimandi e suggestioni quasi che nella fretta, nell’urgenza poetica e nelle difficoltà economiche di un film poverissimo poi concluso, dopo la morte di Caligari, da Mastandrea, si nascondessero le vere ricchezze di Caligari. Il suo sguardo nitido, la sua chiarezza, la spontaneità che non faceva mai rima con improvvisazione perché, racconta il montatore Mauro Bonanni «Claudio il film lo immaginava e lo montava ben prima che il girato arrivasse al montaggio».
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Con la voce metallica e il cuore in tumulto: «Al primo giorno di riprese» dicono quasi all’unisono Luca Marinelli e Alessandro Borghi, Cesare e Vittorio, con tanto di ruolo scambiato dopo un mese preparatorio trascorso a interpretare il personaggio dell’altro: «per la tensione che si respirava, quasi ci detestava». Poi, le cose andarono diversamente e le parole del suo aiuto regista Simone Spada: «Il fatto che stesse male, il suo rigore, ci rendeva una squadra», quelle dell’amico Maurizio Calvesi, direttore della fotografia: «Mi piaceva il fatto che fosse secco, che usasse poche parole, sempre giuste, che fosse timido» e lo straordinario materiale di Se c’è un aldilà sono fottuto, quel backstage così vero da essere utilissimo come documento e del tutto inutile come materiale promozionale, sono lì a dimostrarlo. D’altra parte, se c’era una cosa che a Caligari non interessava, era l’autopromozione di se stesso. A Venezia, nel 1983, Tatti Sanguineti voleva fare casino e gli suggerì una scorciatoia: «Adesso in conferenza stampa facciamo un po' di canile».
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Caligari rifiutò, ma il caos, davanti a un pubblico fluviale, a Mario Appignani alias Cavallo pazzo che minacciava di bucarsi e a Monica Vitti sbigottita, ci fu comunque. Marco Ferreri, grande sostenitore del film tanto da spingersi a proclamare sul campo Caligari come unico erede, diede dello stronzo a Sanguineti. Tatti eccepiva sulla qualità del sonoro e Ferreri esplose: «In questo film non c’è suono, è l’intuizione principale del regista, cretino!».
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Il resto lo fecero il premio ricevuto e le profezie sbagliate: «Adesso che hai vinto il De Sica ce l’hai fatta, puoi fare quello che ti pare». Accadde il contrario e il segno di Claudio venne messo a lato. Una riserva della Repubblica cinematografica a cui non ricorrere neanche in casi disperati. Claudio che da giovane si spostava a Milano per osservare altri giovani che dal basso sognavano la rivoluzione a colpi di autoriduzioni, provò a fare la propria in solitudine. Non fu inutile. Solo un escluso, che non si vergogna di come parlano, si vestono o pensano i marginali, poteva ridisegnare il margine e trascinare in primo piano chi era stato sempre nell’ombra. E questa determinazione, non aveva tempo.
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Come non ce l’avevano i ragazzi che morivano mangiando un gelato sul pontile di Ostia neanche si fosse in una canzone di Dalla, Vittorio e Cesare 32 anni dopo negli stessi luoghi o Claudio Caligari con i pensieri sotto il cappello a larghe falde. «Se Claudio ha perso, dice Mastandrea, «lo ha fatto ai rigori. E ai rigori non è mai una sconfitta reale». Vincere o perdere non conta, l’importante è rimanere. Claudio c’è stato. Siatene felici sembra dire ogni fotogramma. È stato un gran regalo.
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