Niccolò Zancan per "la Stampa"
Marco De Veglia
Stava male da sette giorni. Ma dal letto di casa a Miami, in Florida, il guru del marketing Marco De Veglia si ostinava a non chiedere aiuto. «Nella penultima telefonata mi ha detto: "Da una settimana ho questa brutta influenza e non passa". E io: "Ma quale influenza! Hai il Covid. Ti sei fatto il tampone?". "No, non c'è bisogno", continuava a insistere. Era coerente con le sue convinzioni sbagliate. Nell'ultima telefonata, mercoledì 21 luglio, era ricoverato nel reparto di terapia intensiva e aveva il casco per l'ossigeno. Mi ha mandato una foto in cui aveva una brutta cera, ma era comunque fiducioso. Le ultime parole che mi ha detto sono state queste: "Ci sentiamo entro fine mese per riprendere il lavoro"».
Marco De Veglia
La mattina di sabato 24 luglio Marco De Veglia, che aveva fatto della sua ostilità ai vaccini quasi una seconda professione, è morto di Covid. L'amico conosciuto negli Anni Novanta in un'agenzia di pubblicità di Milano chiede di restare anonimo, ma si tormenta e vuole parlare: «Ho fatto il calcolo. Dai primi sintomi all'ultimo respiro sono passati 14 giorni. Marco aveva la variante Delta. Mi sento profondamente in colpa per non aver insistito di più. Doveva andare subito in ospedale a farsi quel dannato tampone. Il suo primo errore è stato non vaccinarsi. Ma senza il secondo errore forse adesso sarebbe ancora vivo».
Marco De Veglia aveva 55 anni, lascia la moglie Daniela Novati e il figlio Ettore. Nato a Trieste dove si era laureato, dopo gli anni di apprendistato a Milano si era trasferito negli Stati Uniti per specializzarsi in marketing aziendale, prima a New York e poi a Miami. Era ritenuto uno dei più bravi «brand positioning» d'Europa. E ciò di quei professionisti che sanno consigliare a un'azienda come rendersi speciali sul mercato, la comunicazione e la migliore strategia per affermarsi.
Marco De Veglia
Nel mondo di Facebook era una piccola celebrità. Faceva lezioni e conferenze, aveva un modo di parlare molto diretto e chiaro. Ma accanto a quella passione per il marketing, altre idee si erano fatte largo sulla sua bacheca social. Era stato sostenitore di Donald Trump anche ai tempi delle bufale sui disinfettanti da inalare e sul potere mai provato degli antimalarici contro il Covid. Marco De Veglia negli ultimi mesi era diventato un No Vax convinto. Di più: un complottista. Il 19 luglio condivideva queste parole: «Il problema è che nella narrazione pandemica fatichiamo a trovare anche solo un 1% di verità. Eppure ci proviamo, ma niente da fare, una contraddizione dietro l'altra a fare da eco a una propaganda buffa quanto asfissiante. L'ultima sparata è quella dei pass».
Marco De Veglia
Riteneva i vaccini inutili e dannosi. Sosteneva che il green pass fosse una stortura democratica, se non peggio. Firmava petizioni per radiare dall'albo gli immunologi impegnati in prima linea sul fronte della pandemia. Seguiva alcuni No Vax italiani che hanno molto successo, pubblicando notizie false e supposizioni senza alcun riscontro. Anche lui le offriva ai suoi seguaci così: «Alert: questo testo contiene fatti scientifici inequivocabili che non possono essere scritti su Facebook e fanno incazzare Burioni».
Di marketing e di case farmaceutiche. Del Covid che è solo un'influenza. Battute infelici: «I vaccini come gli iPhone. Attendiamo il lancio del nuovo modello a settembre». Frasi che adesso mettono profonda tristezza: «Se Bill va in Congo e ha paura di morire di colera, si vaccina. Non vuole che tutti gli abitanti del Congo si vaccinino. Non pretende che tutti gli abitanti non vaccinati del Congo non vadano al ristorante. Se hai paura di morire di una malattia, fai come Bill. Vaccinati e lascia in pace il resto dell'umanità».
Marco De Veglia
Affrontare l'argomento vaccini con Marco De Veglia era diventato quasi impossibile. «Ho dovuto chiudere la questione, ho deciso di non scrivergli più su Facebook», ricorda un altro amico in lutto. Si chiama Stefano Versace, è un imprenditore che vive a Miami, dove è proprietario di una catena di gelaterie. «Eravamo amici e colleghi. Lui era arrivato in questa città cinque anni fa. Abbiamo collaborato e lavorato insieme molto bene. Le uniche discussioni le abbiamo avute sul Covid. La pensavamo in maniera opposta.
A un certo punto, ho dovuto bloccarlo. Io gli dicevo che vaccinarsi era importantissimo. E lo dicevo per esperienza diretta. A maggio, durante una festa, ho preso il virus. Quindici positivi. Gli undici che avevano fatto il vaccino, me compreso, hanno avuto una forma leggera. Gli altri quattro sono finiti tutti in ospedale, anche un giocatore di basket dell'Nba. Ma persino di fronte a questo esempio concreto, Marco continuava a sostenere che i vaccini fossero delle fesserie».
E adesso? «Adesso mi viene da piangere. Ho perso un amico per non discutere con lui e per non litigare, ma che cavolo di amico sono? Marco era sommerso dalle fake news. E più l'algoritmo gliene mandava, più lui ci credeva. Ho sbagliato ad arrendermi. Dovevo insistere. Dovevo prenderlo a pugni, piuttosto. Dovevo convincerlo a farsi il vaccino in tutti i modi».