ROGER DALTREY E PETE TOWNSHEND
Ernesto Assante per “la Repubblica”
Se c’è una cosa che un appassionato di rock dovrebbe fare almeno una volta nella vita è andare ad un concerto degli Who. Perché la band inglese, che festeggia i 50 anni di musica con un tour che toccherà l’Italia per due date, è un pezzo di storia, perché alcune delle loro canzoni sono parte integrante della cultura contemporanea, perché dal vivo sono una macchina elettrica in grado di far vibrare cuore e cervello.
L’occasione offerta da Pete Townshend e Roger Daltrey ai fan italiani con i due concerti di domani a Bologna e lunedì a Milano è peraltro straordinaria perché, per incredibile che questo possa sembrare, gli Who mancano dall’Italia dal 1972, quando suonarono il 14 settembre al Palaeur di Roma, ben 44 anni fa.
PETE TOWNSHEND WHO
In realtà sono venuti in concerto un’altra volta, l’11 giugno del 2007 all’Arena di Verona, ma quella volta, causa un violento nubifragio, Roger Daltrey perse la voce e il set fu rimaneggiato e cantato in gran parte da Townshend.
Quelli che vedremo quindi in Italia, e che mercoledì sera hanno mandato in visibilio la platea della Stadshalle di Vienna, saranno invece gli Who al completo, nella loro formazione più “stabile” da molti anni in qua, con l’immobile e statuario Pino Palladino al basso - perfetto sostituto di John Entwistle, scomparso nel 2002 - il fratello di Pete Townshend, Simon, alla chitarra, che milita negli Who da ormai venti anni, il trio di tastieristi formato da John Corey, Loren Gold e Frank Simes, e soprattutto Zak Starkey, il figlio di Ringo Starr, che siede dietro ai tamburi e ai piatti della batteria, vera anima ritmica della band, star assoluta della serata, osannato dal pubblico e presentato come un divo da Townshend in scena.
PETE TOWNSHEND 2
A Vienna gli Who sono arrivati in ottima forma, soprattutto Roger Daltrey, pronto a cantare con energia tutti i classici del repertorio della formazione britannica. Si, perché la scaletta della serata è fatta solo di hit, un “greatest hits” dal vivo che ricorda al mondo che dopo Beatles e Stones ci sono solo loro, a chiudere la triade della “famiglia reale” del rock inglese.
Il set parte in maniera insolita, non con la classica I can’t explain come vuole la regola in casa Who, ma con Who are you e per tutta la serata, due ore di musica filate, senza bis, Townshend e Daltrey spaziano nei cinquant’anni della loro storia muovendosi tra gli album e le canzoni in completa libertà. Passano così, alla rinfusa, una bellissima The kids are alright, una versione splendida di I can see for miles e ancora Behind blue eyes, My generation.
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Poi due lunghe sezioni, la prima dedicata a Quadrophenia, il miglior momento del concerto con la strumentale e magnifica The rock, con le immagini di 50 anni di storia che scorrono alle spalle del gruppo. La seconda ovviamente dedicata a Tommy, l’opera rock per eccellenza, riassunta con Amazing journey, Pinball wizard.
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E poi ancora rock, con Zak Starkey a martellare i tamburi, degno erede di Keith Moon, il batterista scomparso nel 1978, dal quale ha preso stile e creatività, fino al gran finale, con Baba O’Riley eWon’t get fooled again, rock al massimo livello.
Townshend e Daltrey reggono il palco con classe, non fanno finta di essere più giovani di quello che sono ma battono ai punti decine di formazioni che hanno meno anni di loro, Pete rotea il braccio a mulinello, Roger lancia ancora il microfono in aria, ma il “circo” è limitato al minimo, in scena c’è solo la musica, senza trucchi o inganni.
THE WHO ALLA CERIMONIA DI CHIUSURA DELLE OLIMPIADI DI LONDRA
Nella vita chi ama il rock deve vedere suonare dal vivo Springsteen, McCartney, gli Stones, e deve andare a un concerto degli Who. Finché è possibile, perché Townshend ha detto più volte che questo potrebbe essere l’ultimo tour. Di tutto il resto si può anche, volendo, fare a meno.
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