Jacopo Iacoboni per la Stampa
BERLUSCONI MY WAY
Impagabile, dal punto di vista storiografico e degli studi futuri sul costume italiano, è già solo il teaser del documentario, la mimica facciale ammiccante con cui il protagonista, Silvio Berlusconi, dice all’intervistatore, Alan Friedman, che lo sta conducendo sul luogo del delitto: «E adesso le faccio vedere - dice, a stento trattenendo gli angoli delle labbra - questa sala cult (pronunciato “cult”, il che conferisce alla scena una maestria rosselliniana) del famoso bunga bunga».
Oppure la visita negli spogliatoi con Berlusconi che catechizza l’allenatore del Milan Inzaghi, dicendogli che deve urlare «attaccare», davanti ai suoi giocatori. E questa banda di giovani calciatori di mezzo mondo che lo guarda lievemente sgomenta, a metà tra il perplesso e il divertito, con Inzaghi imbarazzatissimo.
BERLUSCONI FRIEDMAN
Esce domani, su Netflix, My Way, Berlusconi In His Own Words, il documentario sulla vita di Silvio Berlusconi tratto dal libro di Alan Friedman, diretto da Antongiulio Panizzi e prodotto dalla Leone film Group (dei figli di Sergio Leone), oltre 28 ore di registrazione in cui il Cavaliere racconta la sua incredibile vita (se per una volta perdonate l’aggettivo), in uno spirito di piena collaborazione con Friedman. È un dettaglio importante, perché proprio non trovandosi dinanzi a un approccio formalmente aggressivo, Silvio si concede poi almeno un paio di rivelazioni storiche, e soprattutto, la piena indulgenza verso i suoi notoriamente numerosi vizi.
IL LIBRO DI FRIEDMAN SU BERLUSCONI
Ma innanzitutto My Way è una lunga seduta di analisi, o autoanalisi, che il Cavaliere si regala in pubblico, con le autoassoluzioni, i rimpianti, nessun rimorso, i pochi pentimenti, la vanagloria ma anche l’orgoglio, la sensazione di aver forse troppo comandato e poco disposto o realmente cambiato (se non altro, in meglio), o l’impressione di esser rimasto circondato da pochi, dalla corte gigantesca dell’Italia che fu ai suoi piedi. Lezione sulle umane sorti del potere: da mezzo mondo che lo adulava, alle passeggiate nel parco con il cagnolino Dudù.
Vent’anni: indagine psicopolitica su un paese attraverso una persona. Ha scritto su twitter un ricercatore di Sidney che la prima parte di My Way sembra interessante essenzialmente per il suo psicoterapista. Ma è un giudizio ingeneroso, perché se contiene una parte di verità, quel paziente è stato l’Italia che è stata inverata - e non, attenzione, prodotta - dal berlusconismo. Silvio ne appare, almeno a metà di My Way, un coautore, se non una vittima. Non l’artefice integrale. Anche se poi il film non può mancare di ripercorrere - a modo suo, tra assenza di autocritica del protagonista e senso di accerchiamento universale - gli snodi più controversi della sua carriera.
INTERVISTA DI FRIEDMAN A BERLUSCONI
Le origini di imprenditore, e le città giardino degli anni sessanta. La Banca Rasini e in seguito i sospetti di collegamenti col mondo mafioso attraverso Marcello Dell’Utri. Gli anni ottanta della scalata e della tv commerciale.
Alle domande sui passaggi più duri e controversi della vita, Silvio dice «mi sta facendo passare un brutto quarto d’ora». I tanti processi, dai quali è stato a volte salvato da prescrizioni o leggi intervenute con la sua maggioranza. Il suo essere un Donald Trump italiano ante litteram, come a lui stesso piace di raccontarsi, ma senza aver potuto forse realizzare il peggio della stagione trumpiana e del suo inquietante potere: la trasformazione sistematica del falso (in cui pure era maestro), in menu quotidiano propinato non più dalla tv ma dalle strutture virali. Nell'Italia cinque stelle, come appunto nell’America di Trump; o nella Russia dell'amico Putin, il vero trait d union tra Berlusconi e la stagione della cyberpropaganda.
BERLUSCONI TRUMP
Da questo punto di vista, My Way ci racconta un uomo di un’altra èra. È come se parlasse di Napoleone, o - per i tanti odiatori del Cavaliere oltre il limite della paranoia - di Al Capone. La casa editrice Hachette ha paragonato questa operazione al racconto di Steve Jobs (fatto da Walter Isaacson) e alle interviste di David Frost a Richard Nixon. E per quanto possa essere un’esagerazione pubblicitaria, effettivamente è la storia per immagini di un’affabulazione collettiva che ha sedotto ma anche bloccato e intorpidito l’Italia; persino più del conflitto d’interessi, le leggi ad personam, gli editti bulgari, per cui la storia comunque giudicherà severamente questa lunga stagione italiana.
silvio berlusconi versione trump
Ma era Berlusconi o erano gli italiani, quelle poltroncine coi broccati, quel prato verde rasato all’innatural perfezione, quell’amore infantile per i giardini e i limoni, quelle rose fiorite e quella galanteria d’antan accoppiati poi alle peggiori battute maschiliste da bar Brianza? In My Way, bisogna riconoscerlo, l’eco di tutto questo c’è. Forse bisognerà aspettare, invece, per mettere a fuoco gli snodi politici e affaristici, e le tante complicità, del ventennio. Anche se qualcosa c’è.
DAVID FROST E RICHARD NIXON
Berlusconi racconta per esempio di esser stato fatto fuori da un golpe ordito da potenze straniere, complice la crisi finanziaria in Europa del 2011, quando, al culmine della crisi degli spread nell’area dell’euro, i leader di Francia e Germania provarono a convincere il presidente Barack Obama ad aiutarli a buttar giù l’allora premier italiano. José Luis Zapatero - in un’intervista alla Stampa - in qualche modo confermò che, stavolta, il Grande Mentitore non l’aveva raccontata del tutto sbagliata. Sarà la storia, a giudicarlo; di certo con la sua uscita di scena, più che un golpe si compiva il passaggio dall’età della propaganda verticale delle tv e delle veline a quella della black propaganda virale. È questo, in fondo, il motivo per cui Berlusconi non è stato Trump.