Michela Allegri,Valeria Di Corrado per il Messaggero
vincenzo alvaro
I soldi della ndrangheta riciclati nel cuore del Paese, nella Capitale, dal centro alla periferia. A Roma si era stabilita da tempo una propaggine dei clan di Reggio Calabria, che agiva con i metodi della cosche, ed erano pronti a «fare la guerra».
Violenza e minacce, armi, denaro sporco ripulito alla velocità della luce, ma anche pizzini e riunioni segrete, le «mangiate», e vere e proprie «imbasciate» - i messaggi riservatissimi - lanciate lontani da occhi indiscreti. Ai matrimoni e ai funerali, soprattutto, quando la famiglia si ritrovava e le liste degli invitati venivano cifrate e consegnate a mano per evitare di attirare l'attenzione. Ma anche affari impennati durante la pandemia e legami con le forze dell'ordine, che garantivano notizie riservate sulle indagini.
È proprio Propaggine il nome della maxi-operazione della Dda di Roma e della Dia, che ha portato a 43 arresti - compresi un commercialista e un direttore di banca - sgominando un gruppo criminale radicato nel Lazio, che aveva agguantato il business della ristorazione, reinvestendo un fiume di denaro tra locali e bar, ma anche mercati all'ingrosso, come quelli ittico e dei pellami. Il linguaggio, i rapporti, i riti, erano quelli tipici della terra d'origine, dove ieri sono state arrestate altre 34 persone.
operazione contro ndrangheta
Sullo sfondo, però, c'era il Colosseo, dove a regnare, per gli inquirenti, erano due boss: Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro, entrambi originari di Cosoleto in provincia di Reggio Calabria.
La svolta è nel 2015, quando Carzo riceve dai vertici l'autorizzazione a «riprodurre» a Roma una cosca locale, sfruttando il terrore suscitato dal clan. Il gip Gaspare Sturzo, nelle 2.294 pagine di ordinanza, descrive «la paura di chi si è trovato sulla strada dei capi e degli associati della locale, che professava vicinanza alla ndrangheta».
L'escalation imprenditoriale, per i pm Giovanni Musarò, Stefano Luciani e Francesco Minisci, è stata «impressionante». L'espansione della «locale» romana «sembrava non conoscere limiti». Iniziata nel 2015, è culminata nel 2020, quando grazie alla crisi provocata dal Covid il clan è riuscito a infiltrarsi nelle attività in difficoltà, rilevandole. Alvaro era famoso tra i suoi per essere riuscito a creare un impero: il suo nome era rimasto legato allo storico Café de Paris, in via Veneto, anche se in passato è stato assolto dall'accusa di averlo inglobato nei tentacoli delle cosche.
operazione contro ndrangheta copia
L'ossessione dei boss era di non venire intercettati, soprattutto dopo le informazioni ricevute da un militare. La soffiata arriva da uno degli indagati, Pasquale Vitalone. Alla fine del 2017, dice a Carzo di avere saputo di un'indagine sulla ndrangheta a Roma. Vitalone aveva detto che ci sarebbero stati molti arresti, di «tutti voi altri, i calabresi». Dopo avere trovato microspie in uno dei locali del clan, la prudenza, già altissima, era diventata estrema. Di affari si parlava solo in occasione di matrimoni e funerali.
Feste e lutti erano occasioni perfette per incontri «apparentemente casuali, ma frutto di accurata organizzazione». Una su tutte: il matrimonio della figlia di Alvaro. Il boss si sarebbe adoperato per «celare i nominativi degli invitati» fino all'ultimo, recapitando inviti a mano sia a Roma che in Calabria. Anche il luogo della cerimonia era rimasto nascosto fino al giorno dell'evento, annota il giudice. Era il 24 giugno 2017. Il matrimonio era stato celebrato nella Basilica SS Giovanni e Paolo di Roma, mentre il ricevimento, con 500 invitati, era stato organizzato alla Villa dei Desideri di Cerveteri.
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Un dato importante, secondo il gip: «Tale circostanza testimonia come ormai la Capitale sia l'autentico punto di riferimento di Alvaro, il centro dei suoi interessi». Un accorgimento: il tableau de mariage era stato cifrato in modo che non si vedessero nomi. L'elenco esposto nel ristorante era composto da soli numeri. Plauso per l'operazione dal ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese. Per il sindaco di Roma, Roberto Gualteri, si tratta di «un pesante colpo alla criminalità organizzata». Mentre il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, sottolinea che è stata «la più importante operazione mai fatta nella Capitale contro la ndrangheta».
«NOI, UNA PROPAGGINE DI GIÙ»
Michela Allegri,Valeria Di Corrado per il Messaggero
«Siamo una carovana per fare la guerra». Era consapevole della caratura criminale dell'organizzazione che aveva alle spalle il boss Vincenzo Alvaro, a capo della ndrina di Roma insieme ad Antonio Carzo. La frase è stata intercettata e finita agli atti dell'inchiesta che, su disposizione della Dda di Roma, ha portato la Dia ad arrestare 43 persone, nei confronti di quella che è considerata la prima locale ufficiale di ndrangheta nella Capitale, una ramificazione di quella di Cosoleto e aderente alla Casa Madre calabrese. «Noi a Roma siamo una propaggine di là sotto», confermano gli indagati.
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Nemmeno le forze dell'ordine incutevano loro timore. Per esempio, nell'ottobre 2016 Giuseppe Penna - che aveva messo a disposizione del gruppo «un numero imprecisato di armi» - viene intercettato mentre parla così: «Vuoi chiamare i carabinieri, chiamali... me li sbatto al c... i carabinieri, la Finanza? Dove vuoi andare? La Questura? Mi denunci, mi arresti, ma io c'ho una nave dietro di me... non rimangono neanche le pinne».
La violenza si estrinseca nella frase che Penna pronuncia nei confronti di un egiziano: «Io ti avevo bruciato nel forno della pizza». O ancora: «Me lo piglio, lo metto in un sacco della spazzatura, lo trovano morto ed è finita la storia». Rabbia anche contro il giornalista e opinionista Klaus Davi. Carzo sbotta: «Sto sbirro di Klaus Davi voleva mettere i boss della ndrangheta a Roma chi sono... e voleva appiccicarli nelle fermate della metropolitana, come ha fatto a Milano e aveva messo me, a Vincenzo (Alvaro, ndr)».
ndrangheta sindaco cosoleto
Giuseppe Penna, il 20 ottobre 2016, spiega che a Roma c'era da guadagnare per tutti: «C'è pastina per tutti». «Non è che io devo comandare qua a Roma. A Roma, io lo so, questi della Magliana sono tutti amici nostri, tutti questi dei Castelli, questi dentro Roma, tutto l'Eur che sta tutto con noi... Mano Mozza, li conosciamo tutti, a Torvajanica, al Circeo, sono amico di tutti e mi rispetto con tutti».
Tra gli arrestati, finiti ai domiciliari, c'è anche il direttore della filiale romana di via Baldovinetti della Banca popolare di Milano. Ne parlavano così gli indagati: «È un direttore serio... ci sblocca tutto da tutte le parti. Vuole entrare anche lui nel giro dei locali». Secondo quanto emerso in un'intercettazione del 23 febbraio 2018, l'uomo avrebbe concesso al boss Alvaro un fido da 60mila euro di scoperto per aprire una ristopescheria. Il 17 dicembre 2017, dopo aver visto Silvio Berlusconi in tv presentare il nuovo simbolo del partito - l'albero della libertà -, Penna lo paragona al cosiddetto «albero della scienza», che costituisce un simbolo della ndrangheta: «Se uno dei miei faceva un'intervista con un albero posizionato in quel modo, i miei avrebbero preso 10 anni di galera».
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A differenza dei Casamonica, i boss di ndrangheta non hanno bisogno di ostentare il loro potere con il lusso. «Un Ferrari, andiamo a fare i rappresentanti con quella!», propone Marco Pomponio, uno degli affiliati, ad Alvaro, che risponde: «No, a me mi piace essere umile, terra terra, normale... quelli che siamo». «Sono malato di malavita, che devo fare?», ammette candidamente Pomponio. L'indagato Giovanni Palamara si lamenta anche del fatto che «a Bill Clinton avevano dato il Nobel per la pace mentre a suo suocero (Domenico Alvaro, ndr) no, nonostante avesse contribuito in modo determinante alla pax mafiosa che aveva posto fine alla seconda guerra di mafia a Reggio Calabria».
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