Andrea Dusio per “il Giornale”
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La crociata di Neil Young contro Spotify non si ferma. Il cantautore canadese, dopo aver domandato la rimozione della propria musica dalla piattaforma di streaming ha prima inveito contro la qualità del suono dei file digitali, e poi arringato i lavoratori dell'azienda, invitandoli ad abbandonare il posto prima che «mangi loro l'anima», come riportato da Variety.
La battaglia intrapresa dall'artista simbolo della scena folk-rock degli anni Settanta origina dalla scelta di Spotify di dare spazio ai controversi podcast di Joe Rogan.
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Con un accordo siglato nel 2020, lo show del popolare comico americano, The Joe Rogan Experience, è diventato infatti un'esclusiva della piattaforma. Nel contratto, che risale al 2020, Rogan ha voluto mantenere il pieno controllo creativo del podcast, e le sue posizioni in materia di Covid-19 hanno progressivamente acceso un dibattito sempre più aspro nell'opinione pubblica.
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Con riferimento esplicito al programma, una cordata di scienziati e medici ha recentemente pubblicato una lettera aperta, chiedendo a Spotify di «prendere provvedimenti contro gli eventi di disinformazione di massa che continuano a verificarsi sulla sua piattaforma».
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Prima di sbarcare su Spotify, lo show vantava circa 190 milioni di download al mese, a dimostrazione di una popolarità che teme pochi confronti. Due settimane fa, Neil Young ha scritto alla propria casa discografica, la Warner, e al proprio manager. Non ha usato mezzi termini: «Voglio che facciate sapere a Spotify immediatamente che voglio tutta la mia musica fuori dalla loro piattaforma».
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La lettera è stata inizialmente riportata dal sito del magazine Rolling Stone, per essere poi rimossa. «Possono avere Rogan o Young. Non entrambi».
Il cantautore scriveva esplicitamente: «Sto facendo questo perché Spotify sta diffondendo informazioni false sui vaccini - causando potenzialmente la morte di coloro che credono alla disinformazione diffusa da loro».
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empo poche ore, e la piattaforma ha dato seguito alla richiesta, procedendo alla rimozione di tutto il repertorio del "grizzly" canadese. A stretto giro, altri artisti hanno lasciato Spotify.
Prima Joni Mitchell, poi Crosby, Stills e Nash, che formavano con Young il supergruppo per eccellenza del suono della West Coast. Altri servizi di streaming, da Apple ad Amazon Music, si sono mossi per aggiudicarsi i diritti delle library "oscurate".
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Con roboanti annunci, tipo «La casa di Neil Young», e tanto di tutorial e articoli dedicati a come trasferire le playlist da una piattaforma all'altra.
Anche tra gli utenti, per effetto combinato dell'ostilità verso Rogan e della strenua fedeltà a Neil Young, che accomuna molti appassionati di alternative rock, si sono registrate numerose disdette degli abbonamenti a Spotify.
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Young dice di essere assolutamente per la libertà di parola. «Le aziende - dice - hanno il diritto di scegliere dove fare i loro profitti, ma anche io ho il diritto di non avere la mia musica su di una piattaforma che diffonde informazioni pericolose».
Le mosse più recenti sono però il frutto di un altro genere di scontro. Quando se la prende con la qualità sonora della musica veicolata dal servizio di streaming, si rifà in realtà a un suo antico convincimento, che risale al momento in cui apparvero i file di compressione Mp3 che, a causa della compressione, sacrificavano parte della fedeltà garantita dai vecchi supporti fonografici.
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Young ha speso ingenti risorse per convertire la propria musica con una qualità maggiore, dichiarando che avrebbe messo a punto un standard, una sorta di "Graal", in grado di conservare intatto il suono puro della sua musica, senza compromissioni legate alla disponibilità di dati e alla loro fruizione sulle piattaforme.
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Da tempo il cantautore lavora alla costituzione di un proprio national treasure, un archivio dalle dimensioni smisurate, in cui convogliare tutta la sua musica, edita e inedita, in studio e live.
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Questa cattedrale della memoria (o se si vuole questo "fienile", stante la poetica del nostro) sembrava aver trovato in Spotify la sua allocazione. Ora però Young scrive appelli dai toni tra il messianico e il luddista, dicendo che i dipendenti di Spotify dovrebbero «prendere la propria strada ed essere liberi», e accusando il ceo Daniel Ark di essere dedito esclusivamente ai numeri.
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«Non all'arte, e tanto meno alla creatività». C'è dunque un tema di fondo, una questione che travalica la posizione sul Covid e quella sulla libertà d'espressione. Le piattaforme come Spotify nascono come luogo destinato a ospitare il repertorio che non trova più spazio su supporto fisico, a causa della riduzione delle vendite su Cd.
Ma la popolarità dello streaming le ha trasformate in un contenitore trasversale, dove ha sempre più spazio il puro entertainment, a partire dal gaming, così come l'informazione, con i podcast.
La musica è stata la civetta che ha attratto i primi pionieri. Ora che lo strumento è diventato di massa, rischia di essere ridotta a un ruolo ancillare. E contro quest'evidenza non c'è opinione che tenga.
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