Simona Orlando per “il Venerdì di Repubblica”
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Non puoi dire di conoscere il dolore vero finché non calpesti un Lego a piedi nudi». Per capire come abbia fatto, un normale mattoncino, a reggere in aforismi, corsi di fisica e filosofia, canzoni dei Beastie Boys e di Ed Sheeran, è appena uscito, in inglese per Mariner Books, The Lego Story. Il libro celebra i novant' anni del marchio danese, e leggendolo ci si stupisce che la storia non sia ancora fiction.
A raccontarla è il giornalista Jens Andersen, che per la prima volta accede all'archivio e conversa con Kjeld Kirk Kristiansen, ex presidente e ceo nonché nipote del fondatore Ole Kirk Christiansen: il fervido cristiano luterano, prima pastore e poi carpentiere, che nel 1916, grazie a un prestito bancario, comprò casa con falegnameria annessa in un villaggio di cento anime.
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A Billund costruiva porte, scale e bare, ma già puntava a materiali di qualità e ragionava in grande. Dopo ogni incendio (ne subì tre) s' indebitò per allargare l'attività invece di abbandonarla. Fede o incoscienza, di fatto la sua tenacia mutò ogni disgrazia in opportunità. Tanto che quando, nel 1932, la Grande Depressione cancellò commesse e crediti, lui si mise a costruire giocattoli con il legno rimasto in magazzino: macchinette, trenini, trattori. Secondo il parere locale, oggetti ridicoli e sminuenti per un artigiano di talento. Eppure si vendevano.
Complici anche le teorie di Freud, Piaget, Montessori, che ormai riconoscevano un alto valore al gioco. E complice anche quella che Ole Kirk chiamò «la manna dal cielo», cioè la febbre da yo-yo. Era, questa, una manìa europea per grandi e piccoli, distrazione perfetta in tempi di crisi. Kirk si concentrò dunque sulla fabbricazione dei rocchetti, giorno e notte, spedendo poi in tutta la Danimarca.
Ole Kirk Christiansen
Presto diventarono ruote di veicoli e animali da portare a spasso, richiestissimi a Natale. Seguirono poi altri disastri convertiti in fortune: la morte della moglie e della governante, e la nuova governante presa in moglie - insieme una dote che lo salvò dalla bancarotta. E sebbene la storia del marchio non brilli per pari opportunità (alla Lego la prima vicepresidente donna risale al 2006), la signora Sophie ne fu proprietaria fino al 1944. Senza di lei, addio giocattolino.
Doveva chiamarsi "Legio", una legione di giocattoli per una produzione di massa, ma si optò per "Lego", contrazione di leg godt, "gioca bene" in danese. Lo slogan: "Per i bambini solo il meglio è abbastanza".
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Il lavoro era assicurato per casalinghe, orfani e vedove di una comunità che presto sarebbe sprofondata nel gorgo della Seconda guerra mondiale, con cibo ed elettricità razionati, colla e vernici irreperibili. Il peggio arrivò con l'occupazione tedesca. Nel 1943 la Wehrmacht piazzò i soldati nelle case, e qualche ufficiale si stabilì nella Lion House di famiglia. Ole Kirk mantenne però il sangue freddo, e il libro svela perché: aiutava a far rispettare legge e ordine come rondista, in realtà era un leader della Resistenza.
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Non si esponeva con i sabotaggi. Riceveva però armi e munizioni dagli inglesi e le nascondeva nel deposito. Le bombe a mano erano stipate in scatole accanto al faggio, sotto il naso dei nazisti. E tutto veniva poi trasportato su camion con l'innocente scritta Lego.
Perché in guerra le vendite di giocattoli aumentarono del 40 per cento - e le armi raggiungevano i reparti di Liberazione.
Fu negli anni Cinquanta che, a corto di legna, l'azienda scelse la plastica ancora poco usata. Colorata, igienica, indistruttibile. Prima produsse palline, poi un prototipo dei famosi mattoncini. Non un'idea originale. A inventarli fu in realtà l'inglese Hilary Fisher Page, fondatore della Kiddicraft. Ma Lego ne copiò un campione che Oltremanica non aveva avuto successo. Chi se ne sarebbe accorto? Nessuno si aspettava che potessero diventare il gioco del secolo, nonché causa da tribunale (più d'una).
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Il mattoncino ufficiale nacque nel 1953, e cinque anni più tardi il figlio di Ole Kirk, Godtfred, inventò il sistema tubolare interno. Questo sì geniale. Perché permetteva, finalmente, di assemblare i mattoncini in maniera stabile. Ai test risultarono infallibili: i figli Kjeld e Hanne (immortalati sulle confezioni) in cantina di divertivano a costruire senza bisogno di libretti d'istruzione, usando solo l'immaginazione. Soci e investitori venivano invitati a osservarli, e finivano per convincersi.
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Furono tante le intuizioni del gruppo. Anzitutto non considerare mai il gioco una perdita di tempo; non abbandonare la dimensione domestica - l'impero, nonostante i dissidi fra eredi, non ha mai cambiato sede - e puntare sempre su un prodotto duraturo e da tramandare. In apparenza, un suicidio commerciale. Si rivelò invece un innesco affettivo per la fidelizzazione a colpi di espansioni e nuovi prodotti, e aprì un mercato globale in un pianeta non ancora globalizzato.
Il boom fu in Germania, dove il miracolo economico e la voglia di ricostruire dopo la guerra fece germogliare il sogno edilizio. Al punto che Godtfred, rendendosi conto di non poter costruire con i Lego una vera casa, ideò lo Scale Model (la serie per ingegneri e progettisti) e poi costruì a Billund un aeroporto con pista segnalata da megabricks e, accanto, nel 1968, il parco Legoland a grandezza naturale. Oggi i parchi Lego nel mondo sono dieci.
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Negli anni Settanta lanciò poi sul mercato le mini-figures per accontentare anche le "clienti" femminili, desiderose di umanoidi da muovere in ambienti interni, preferibilmente case di bambole e castelli. Il giovane Kjeld inaugurò la terza generazione imprenditoriale aprendo a varie collaborazioni: negli Ottanta chiuse l'accordo con McDonald's e così la conquista dell'America avvenne sulla caravella dell'Happy Meal.
Nel 1999, altro colpaccio: la fusione con l'universo di Star Wars, un successo pari solo al successivo con la saga di Harry Potter. Pur espandendosi nel digitale con film, app, videogiochi, oggi Lego resta un baluardo del reame fisico. Per dire: durante la pandemia, le vendite sono salite del 21 per cento. Gli affezionati comprano solo nei negozi ufficiali, dove c'è più scelta.
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E i mattoncini partecipano a tornei mondiali, agli Oscar in formato statuetta delle celebrità, e vanno in mostra con le opere di Nathan Sawaya, che ne ammansisce linee rigide e angoli retti. Ora, la sfida per la quarta generazione sarà la sostenibilità, dato che ogni anno 80 milioni di bambini ricevono una scatola di pezzi di plastica (gli altri dieci milioni di fan sono adulti). Ma diceva Platone: «Si può scoprire di più su una persona in un'ora di gioco che in un anno di conversazione». Soprattutto se perde. Ma il bello delle costruzioni è proprio questo: che non c'è sconfitta.
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