Francesco Olivo per “la Stampa”
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Per la Lega la battaglia decisiva si gioca a Milano. Sul candidato sindaco Luca Bernardo nessuno punta un centesimo, si considera già di fatto una partita persa e così tutti gli occhi saranno puntati sulla lista del Carroccio. Se fosse confermato il crollo di voti previsto dagli ultimi sondaggi pubblicati o peggio ancora arrivasse un clamoroso sorpasso dei Fratelli d'Italia nel capoluogo lombardo allora si aprirà la resa dei conti nel Nord, mettendo in discussione, non tanto Salvini, ma la svolta nazionalista imposta dal leader.
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Nel partito l'uscita dell'europarlamentare vicino ai No Vax, Francesca Donato viene derubricata, «interessa a tre giornalisti», dice Salvini a Porta a Porta, dopo averle augurato «buona fortuna», i problemi però esistono e sono molto più ampi del dibattito, pur molto logorante, sul Green Pass. Ora sono tutti in campagna elettorale, i fedelissimi di Giancarlo Giorgetti si mischiano a quelli di Matteo Salvini nei comizi in giro per l'Italia, governisti e movimentisti tutti insieme, perché nessuno può tradire proprio adesso.
Però sono in tanti quelli che al Nord aspettano di vedere come andrà alle urne per «aprire una discussione seria», spiega un dirigente di primo piano. Fuori dal politichese, la «discussione seria» non si traduce con scissione, dalla Lega nessuno è uscito con profitto, né, almeno per ora, con un cambio di leadership, se non altro per mancanza di alternative al segretario attuale.
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Quello che, però, ampi settori di ciò che resta del partito settentrionale vorrebbero discutere è la strategia di fondo, ovvero la svolta nazionalista che Salvini ha imposto negli ultimi anni, trasformando un movimento autonomista, e a tratti indipendentista, in una forza nazionalista (italiana). Dal Sole delle Alpi al Tricolore, il passaggio è disinvolto quando si sta al 33%, ma quando si scende al 20 i mal di pancia escono fuori.
MASSIMILIANO FEDRIGA E MATTEO SALVINI
«La Lega aveva un prodotto unico sul mercato - ragiona un ex dirigente lombardo - Matteo lo ha stravolto, commissariando il partito e trasformandolo in una cosa che non risponde più alle esigenze dei nostri elettori di sempre. In sostanza vende un prodotto che vendono tutti e infatti dalle mie parti molti dei nostri, sbagliando, voteranno Meloni».
FRANCESCA DONATO MATTEO SALVINI
Un collasso a Milano, ma anche un cattivo risultato a Varese (dopo quelli non positivi a Lecco, Saronno e Legnano) dimostrerebbero, secondo la vecchia guardia, che Salvini non tira più al Nord e nel frattempo perde al Centro-Sud quella classe dirigente salita sul carro, «anzi sul Carroccio», ma pronta a scegliere altri lidi, «difficilmente farà come Bossi, ovvero trovare un capro espiatorio».
La questione dei governatori, scoppiata sul tema del certificato vaccinale tiene ancora banco, ieri una nuova puntata: sì alla fiducia sul decreto Green Pass bis, ma con 41 assenze ingiustificate dei deputati e nuovi proclami di lotta. La spaccatura però ha una ragione più profonda: la spinta per tornare ai vecchi temi territoriali, abbandonando questa gara populista con Meloni «su chi è più di destra».
LUCA ZAIA CON IL GREEN PASS
In molti hanno notato come il tema dell'autonomia differenziata, votata dai cittadini veneti e lombardi in un referendum nel 2017, e sposata anche dal governatore del Pd dell'Emilia Romagna Stefano Bonaccini, sia stata completamente trascurata, anche quando, durante il governo gialloverde, la ministra degli Affari regionali era la leghista (veneta) Erika Stefani, «Salvini l'ha bloccata e poi con il governo Draghi l'ha spostata e al suo posto c'è Gelmini che di questo non si occupa». «In Veneto c'è parecchia incazzatura - dice un leghista vicino al governatore - Zaia in fondo è un "democristiano", ma se perde la pazienza gli porta via il partito in dieci minuti».
luca zaia
Dal Nord arrivano altri mugugni, trattenuti solo dalla scadenza elettorale, quando arriva la notizia della probabile nomina dell'avvocato amministrativista Federico Freni a sottosegretario al Ministero dell'Economia, al posto di Claudio Durigon, dimessosi dopo le frasi sul parco da intitolare ad Arnaldo Mussolini: «Ci avrebbe dovuto mettere Massimo Bitonci, gli spettava e invece Salvini ha fatto un'altra scelta "romana". Non c'è niente da fare Matteo non ascolta».